Meredith, il finale di un’inchiesta indiziaria

di Paolo Graldi
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Venerdì 27 Marzo 2015, 23:46 - Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 08:12
Assolti. Lo ha stabilito dopo dieci ore di camera di consiglio la quinta sezione delle Cassazione. La Suprema Corte ha detto basta, ha evitato la strada dell’annullamento per andare ad un altro calvario processuale e ha detto che non ci sarà rinvio a un altro giudice. Una parola fine netta, quasi a fuoco su una mole di processi davvero impressionante, con gli imputati che hanno scontato quattro anni di carcere preventivo. Sentenza a sorpresa, diciamo la verità.



I difensori, Giulia Bongiorno che difendeva il giovane ingegnere credeva nella innocenza totale del suo assistito, magari separando il suo ruolo da quello della sua fidanzatina americana, ma in cuor suo ha temuto che questo difficile cammino potesse riservare altre e amare sorprese. Dunque: Amanda Knox e Raffaele Sollecito non hanno ucciso Meredith Kercher. Unico colpevole l’ivoriano Rudy Guede, che sta scontando sedici anni perché ha patteggiato. L’arma del delitto, il coltellaccio investigato in ogni sua molecola, non ha ucciso la studentessa inglese, il memoriale di Amanda, quasi estirpato con mille suggestioni, ha falsato le tante piste investigative e si è rivelato di carta velina.



Prove insufficienti, insomma, che battono le tesi della Procura Generale e ci consegnano una sentenza che ha posto l’immagine della giustizia italiana sotto un bombardamento internazionale di critiche. Specie di provenienza americana, da dove si sono mobilitati fior di investigatori privati per confutare le mosse dell’accusa e che hanno contribuito a dipanare una gigantesca campagna mediatica a favore della ragazza. Resterà, riacquistando il sonno perduto, nella sua Seattle, ora non si sa più se in attesa di sposare il fidanzato che è un suo vecchio compagno di scuola. Ora non è più necessario mettere la festa in calendario. Il verdetto è già festa. Sollecito, descritto come un Forrest Gump dal suo avvocato, «con tanta paura» ma «sereno dentro» ha atteso la sentenza a casa sua, a Bisceglie, ma fino a ieri mattina era a Palazzaccio, seguendo le ultime fasi del dibattimento. Si è comportato con calma e fiducia, ha atteso di sapere che i prossimi venticinque anni avrebbe dovuto trascorrerli in carcere, senza altre scorciatoie, o se, da adesso guardare al futuro da uomo libero.



La travagliatissima vicenda giudiziaria, quasi un fiume carsico nell’altalena tra condanne e assoluzioni, nasce da una istruttoria contrappuntata da sottovalutazioni, sviste, omissioni riparate con altrettante falle, errori e ripensamenti. Una impronta trovata sul luogo del delitto, questa la sbandierata tesi della difesa ma che è anche negli atti, è stata attribuita prima a Sollecito, poi con una piroetta periziale a Rudi Guede e infine assegnata ad Amanda. Capito? Una impronta di scarpa, una sorta di sigillo marchiato col sangue della vittima, nella stanza della morte che fa il giro turistico dei tre imputati. Anche la storia del gancetto al reggiseno di Meredith è stato portato sotto diversi microscopi e alla fine, dopo dispute accesissime tra esperti di Dna, si è approdati ad una mezza verità, a un indizio in cerca di altri indizi per confezionare una prova. Anche la stessa dell’arma del delitto, un coltellaccio di cucina di casa Sollecito, nelle diverse rappresentazioni processuali, ha innescato furibonde liti peritali tra chi sosteneva di avervi riconosciuto del sangue della vittima e chi soltanto dell’amido, a parte la storia attribuita ad Amanda che porta in giro di notte trentatrè centimetri di lama, si dice, per paura di brutti incontri. La lama viene usata per ammazzare la povera Meredith per poi essere riposta nel suo cassetto. Perché: risulta nell’inventario della casa, farla sparire era impossibile.



Insomma, senza voler infierire che a questo ci hanno pensato gli opposti pareri delle corti d’assise e d’assise d’appello, due processi di primo e secondo grado hanno navigato tra indizi branditi come prove e prove labili come refoli di vento, in uno slalom dibattimentale che è apparso, nell’insieme, fragile, contraddittorio, incongruo: una pesantissima condanna il primo processo, un’assoluzione il secondo per non aver commesso il fatto anche perché se in tutta questa storia c’è un punto fermo esso riguarda un sicuro colpevole, appunto Rudy Guede, che sta scontando sedici anni di carcere, con lo scontone per aver accettato il processo abbreviato. Guede è quasi a metà pena scontata e già vede la luce in fondo al suo tunnel carcerario. Il terzo processo di Firenze, dopo quelli andati in scena a Perugia, si è celebrato dopo una sentenza della Cassazione che rimandava gli atti ai giudici di merito con una serie rabbrividente di richieste: mettere mano e spiegare illogicità, contraddizioni e sequenze inspiegabili. I supremi giudici della prima volta, diciamo così, hanno chiesto che nel rifare il processo si mettesse in luce almeno il movente del delitto. In una prima fase s’era parlato di dissapori inestinguibili e feroci tra Amanda e Meredith, poi di oscure scene a sfondo sessuale, poi di soldi rubati in casa e destinati all’affitto, ma s’è tirato in ballo il litigio per le casa sporca, Meredith versus Amanda.

Che la vicenda tutta indiziaria (elemento decisivo per i media che possono giocare sui campi avversi tra innocentisti e colpevolisti) fosse destinata a grande risonanza lo hanno decreto gli ingredienti di base, le figure dei protagonisti, ma anche una cruda rappresentazione di una giustizia lenta e a tratti crudele, incerta nel suo procedere, contraddittoria nelle sentenze, imbevuta di perizie discutibili.

Ora si moltiplicheranno interviste, scoop televisivi, nuovi progetti per romanzi e fotoromanzi da dare in pasto, dopo il quinto grado di giudizio, a otto anni dal suo inizio, al pubblico del giallo dal vero. Giornalisti venuti da tutto il mondo, sfiancati da una attesa che è parsa eterna, ora raccontano un’altra storia. Con un lieto fine.