Lo Schettino coreano e la lezione per l'Italia

di Giuliano da Empoli
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Mercoledì 12 Novembre 2014, 01:50 - Ultimo aggiornamento: 03:28
È stato condannato a 36 anni di carcere lo Schettino coreano. Il capitano che avrebbe abbandonato un traghetto mentre affondava al largo dell’isola di Jeju, causando la morte di 304 persone. Il tribunale Gwangju lo ha assolto dall’accusa di omicidio, ma lo ha giudicato colpevole di negligenza, insieme ad altri membri dell’equipaggio, anch’essi puniti con condanne per decine di anni di reclusione.



Non c’è nulla di cui rallegrarsi, ovviamente. E i media coreani hanno salutato la notizia con il composto ritegno che contraddistingue i comportamenti pubblici in quella parte del mondo. Però, a sette mesi di distanza dall’incidente, giustizia è fatta. E questo è almeno un modo di voltare pagina. Di iniziare a superare il trauma nazionale di quel naufragio per ricominciare a pensare anche ad altro, senza tradire la memoria delle vittime e il dolore delle famiglie. Difficile, per un italiano, non fare il parallelo con il caso della Costa Concordia. Il cui capitano, a quasi tre anni dal naufragio, è ancora in attesa di giudizio. E addirittura quest’estate lo si è visto scorrazzare per party più o meno esclusivi nelle ville del Mediterraneo.



Ora, sarebbe troppo facile cogliere l’occasione per scagliarsi contro l’inefficienza del nostro sistema giudiziario. In fondo, la celerità non è sempre sinonimo di equità. I sud-coreani provengono da un sistema che ha mantenuto caratteristiche autoritarie fino a tempi recenti.



E può anche darsi che le procedure dei loro tribunali siano tuttora troppo spicce per i nostri gusti. Il punto, però, è che quando una comunità è colpita da una catastrofe causata, o aggravata, dall’azione dell’uomo, si apre una fase di crisi. Le persone - non solo i parenti delle vittime, ma l'opinione pubblica nel suo insieme - provano un istintivo bisogno di risposte.



Vogliono sapere chi, come, quando è il responsabile. Se hanno fiducia nelle istituzioni, aspettano che sia la magistratura a formulare le risposte. Ma fino a quando queste non arrivano, restano in uno stato di incertezza. Come se le regole della convivenza civile fossero state momentaneamente sospese. Per chi è al potere sono fasi pericolose, perché alimentano lo scetticismo e generano frustrazione. Ecco perché, i dittatori fanno in modo di chiuderle il più rapidamente possibile.



Nel suo magnifico "Ballo del Kremlino", Curzio Malaparte ricorda che, mentre stava a Mosca, Stalin aveva fatto fucilare il direttore generale delle ferrovie sovietiche. «Le caldaie delle locomotive - scrive - scoppiavano da qualche tempo con una frequenza sospetta. Von Meck (il direttore) era stato fucilato per offrire all’opinione pubblica sovietica una spiegazione politica alla ragione tecnica del cattivo funzionamento delle ferrovie sovietiche».



In democrazia, chiaramente, le cose sono un po’ più complicate. Ma sarebbe ingenuo sottovalutare la barbara lezione del dittatore sovietico. La domanda di giustizia è un istinto naturale. Se le istituzioni democratiche governate dalle legge riescono, più o meno a soddisfarla, bene. Altrimenti, questa domanda resta insoddisfatta ma non scompare. E si trasforma in rabbia, desiderio di vendetta, qualunquismo. La foga giustizialista che attraversa il nostro Paese da vent’anni - dal dipietrismo fino al grillismo, passando per i girotondi e i talk-show - è dovuta essenzialmente a questo: la frustrazione per un sistema, politico e giudiziario, che non individua e non punisce i responsabili. Che non chiude mai una vicenda che sia una con una parola definitiva. Che dà l'impressione di essere sempre manipolabile e reversibile. Ecco allora che i processi, anziché nei tribunali, si fanno nei bar, in televisione e sui social network, sulla base di informazioni frammentarie, di voci, di pregiudizi. E dato che la giustizia arriva sempre troppo tardi - come la nottola di Minerva che prende il volo quando ormai sono calate le tenebre - il tribunale diventa quello: l'arena dei gladiatori, unico vero simbolo del nostro tempo.