Raganello, paradiso naturale divenuto inferno in un attimo

di Francesco Bevilacqua
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Mercoledì 22 Agosto 2018, 00:02
Quanto accaduto lunedì pomeriggio nel parco del Pollino, al di là del dolore e della rabbia, sarà oggetto di accurate indagini. Ma sia l’ondata di piena del torrente Raganello dovuta a una fatalità, sia che si stabiliscano responsabilità umane e se ne traggano le conseguenze per il futuro - vi era stata un’allerta meteo diramata sin dal giorno prima e sarebbe stato prudente impedire l’accesso alle gole - questa tragedia non deve far passare l’idea della “colpevolezza” di luoghi meravigliosi: Civita, il Raganello e tutto il Pollino meritano tutto l’amore e il rispetto di chi vi abita e di chi, con consapevolezza, vuole conoscere le loro meraviglie.

Sino ad una trentina d’anni fa ben pochi, in Europa, conoscevano il Pollino, il massiccio montuoso che salda la Calabria alla Basilicata. A quell’epoca se ne occupavano soltanto una cordata di società, da un lato, che voleva realizzare, sull’altopiano centrale del massiccio, una “Pollinia, città delle nevi”, con villaggi turistici, strade, impianti di risalita e piste da sci, e dall’altro le associazioni ambientaliste che chiedevano, invece, l’istituzione di un’area protetta. Dopo estenuanti battaglie, l’ebbero vinta questi ultimi e fu istituito il Parco Nazionale del Pollino, che con i suoi 180 mila ettari di estensione è una delle aree protette più vaste del vecchio continente, e comprende non solo la parte centrale del massiccio, ma anche molti altri gruppi montuosi di entrambe le regioni. Foreste estese, patriarchi arborei (pini, faggi, abeti, querce, castagni, aceri etc.), cime rocciose che raggiungono, con Serra Dolcedorme, i 2267 metri di altitudine, animali selvatici (lupo, capriolo, istrice, lontra, cervo, aquila reale, avvoltoio capovaccaio, grifone etc.), monumenti di roccia, canyon, cascate, borghi arroccati, resti archeologici, tesori d’arte, minoranze etniche, tradizioni, enogastronomia: sono alcuni degli straordinari motivi di interesse di quest’area del Sud che sembrava sprofondata nella perdita di memoria, nell’abbandono e nell’oblio e che, invece, da alcuni anni, sta imparando a far tesoro dei propri beni culturali e ambientali per intraprendere la strada della rinascita civile ed economica.

Proprio sul versante orientale del Pollino, a circa 2000 metri di quota, nasce il Raganello, il torrente tristemente assurto agli onori della cronaca per la sua ferale onda di piena. Il Raganello era divenuto, insieme al Pino loricato (la millenaria e gigantesca conifera endemica che vive sulle alte quote del massiccio) il simbolo stesso del parco. Le sue gole sono visitate ogni anno da migliaia di persone. Il Raganello sbuca da una gelida sorgente d’altura, sotto la Grande Porta del Pollino, e si impingua dei tanti rivi che solcano la grande testata valliva che a semicerchio si apre fra le maestose timpe (letteralmente “montagne di pietra”) della Falconara, di Sant’Anna, di San Lorenzo (la cui perpendicolare parete è alta oltre ottocento metri), i versanti orientali di Serra di Crispo e Serra delle Ciavole, la lunga dorsale di Monte Manfriana con la vasta foresta della Fagosa.

La grande conca montana che forma la testata valliva è uno degli ultimi ricettacoli dell’antica civiltà contadina e pastorale del Pollino, con ancora attive diverse masserie abitate anche d’inverno. Pascoli, coltivi, boschi, ruscelli, rocce, rupi, vecchie case di pietra, racchiudono i segreti di una vita arcaica altrove scomparsa. D’inverno, quando la neve cade copiosa, i pastori del Raganello restano isolati per giorni. Dopo qualche chilometro di ripido corso, la testata valliva si restringe, come un imbuto, sino a scavare uno stretto varco fra le rocciose pendici della Timpa di San Lorenzo da un lato e le timpe di Porace e di Cassano dall’altro: è questa la Gola di Barile, lunga circa tre chilometri, nel comune di San Lorenzo Bellizzi e di più difficile accesso. 

Dopo un breve tratto in cui il greto si allarga, il Raganello si tuffa nuovamente fra alte pareti di roccia meravigliosamente modellate dall’erosione fluviale (in alcuni punti l’alveo di restringe sino a tre o quattro metri). E’ questo il tratto basso delle gole, detto Canyon del Raganello, lungo sei chilometri, nel comune di Civita, splendido borgo popolato da una minoranza etnica albanese che conserva lingua, tradizioni, costumi, riti.
Ed è proprio da Civita che i turisti accedono più facilmente al canyon. Una breve e ripida stradina che parte dall’abitato, scende in breve allo sbocco delle gole basse, sotto il pittoresco Ponte del Diavolo. I turisti, attratti dalla pura e semplice bellezza del canyon o dalle profferte di avventura e divertimento delle agenzie, risalgono le gole direttamente lungo l’alveo del fiume, fra cascate, massi ciclopici, rapide, laghetti, spesso privi della necessaria attrezzatura (muta, scarpe da torrentismo, casco). Altri si affidano a guide locali; altri ancora, torrentisti esperti, effettuano l’intera traversata del canyon da monte a valle.

Le Gole del Raganello sono state scoperte a metà degli anni Ottanta. Prima erano solo un orrido pauroso dal quale le popolazioni locali si tenevano ben lontane. Ma già nel 1933, un famoso editore fiorentino, Giuseppe Orioli, durante il suo avventuroso viaggio in Calabria, le definì “un posto sensazionale”, descrivendo con toni immaginifici la visione che ne ebbe proprio dal Ponte del Diavolo e citando a paragone le illustrazioni dell’inferno dantesco del pittore francese Gustave Dorè. Solo negli ultimi anni le gole sono divenute una rinomata meta turistica. Al punto che Civita si è rianimata, riempendosi di B&B, affittacamere, ristoranti tipici, servizi di accoglienza, e risvegliando l’orgoglio per la sua storia, le sue tradizioni, le sue splendide montagne. La tragedia del Raganello non deve fermare né appannare questo processo di rinascita. 
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