La mobilitazione che manca in una Roma che non è sicura

di Maria Latella
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Martedì 19 Settembre 2017, 00:05
Un’altra donna violentata a Roma. Tedesca, 57 anni, senza fissa dimora. Stuprata di notte a Villa Borghese da un ventenne, pare polacco.

Un giovane che poi l’ha lasciata lì, nuda e con i polsi legati, imbavagliata perché non gridasse. Dev’essersi ispirato a qualche B-movie il giovanotto. Non sapeva che quell’immagine, una donna nuda, imbavagliata e dunque senza voce, legata e dunque senza capacità di azione, potrebbe avere più forza di qualsiasi metafora. Potrebbe. Se saremo capaci di non girarci dall’altra parte.

Lo so: la prima possibile reazione è questa: «A me non può succedere. Io non giro di notte per Villa Borghese, non ho quel genere di frequentazioni, io non...». Diciamolo, perché l’abbiamo pensato: «Io non sono una senza fissa dimora». Certo: chi vive per strada è fragilissimo, più fragile, più esposto. Se qualcuno gli offre un simulacro di attenzione, lo prende al volo. Noi invece pensiamo: «Non può succedere». Noi una casa l’abbiamo, ci immaginiamo al riparo. Al riparo dietro il muro delle nostre certezze. Eppure...

Intendiamoci: qui non si condivide nulla, davvero nulla, di chi, anche nei media, specula sulla paura. Ingigantire gli allarmi per lucrare sulle insicurezze non è obiettivo di quest’articolo né di questo giornale. Si vorrebbe, semplicemente, guardare in faccia la realtà.

La realtà allinea una di seguito all’altra la cronaca di stupri, tentati o invece portati a segno. Molti in pochi giorni: tre soltanto a Roma. La ragazza belga assalita sulla scalinata del Campidoglio, la baby sitter finlandese stuprata all’uscita da un locale, ora la cinquantenne tedesca legata e violentata, umiliazione nell’umiliazione.
Quel che accade a Roma coincide, più o meno temporalmente, con ciò che è accaduto recentemente a Firenze o a Rimini. Questa è la realtà. E a fronte di questa realtà a me pare che stiamo tutti vistosamente rimuovendo i fatti. C’è, ci deve essere, una via di mezzo tra il voltare la testa dall’altra parte e l’abbandonarsi all’isteria collettiva, al contagio di una - per ora irragionevole - paura. Poi c’è la via scelta da questo giornale. Che ha deciso di non voltare la testa dall’altra parte, di non aggiungersi al coro dello sdegno temporaneo e collettivo.

È o no un fatto che gli stupri, tentati o portati a segno, avvengono ormai in pieno centro, dalla stazione Termini alla scalinata del Campidoglio? È o no un fatto che può capitare a tutte di ritrovarsi sole di notte per strada o sole per strada all’alba e non perché si esce da un locale notturno ma perché si sta andando al lavoro? Sono condizioni che riguardano molte se non ciascuna di noi, a qualsiasi età. Riguardano noi, le nostre figlie, le studentesse alle quali facciamo lezione.

E allora che si fa? Finta di niente? Il Messaggero perciò ha deciso di opporre ai fatti altri fatti. Cinque proposte. La prima: taxi dedicati e un numero speciale da poter chiamare in caso di emergenza per non dover restare appese al telefono mentre qualcuno minaccia di farci la festa. La seconda: videocamere e controlli a distanza. La terza: responsabilizzazione dei gestori dei locali. La quarta: più informazioni per turiste e studentesse straniere. La quinta: strade più illuminate. Proposte concrete. Realizzabili. Ma se non ci facciamo sentire noi - le donne, le madri, le ragazze - perché quelle proposte dovrebbero incidersi nella memoria collettiva?

Può darsi che questo silenzio nasca dall’imbarazzo. Spesso le donne stuprate vengono da altri Paesi, ma anche gli stupratori. Uno dal Bangladesh, l’ultimo, pare, dalla Polonia. Non sappiamo come gestire questa realtà, sempre a rischio di infilarsi nel bollente calderone del razzismo. E allora taciamo. O diciamo che ci vogliono pene severe (ci sono: la legge prevede il carcere da 5 a 10 anni). Chiediamo che lo Stato faccia prevenzione, spieghi a chi viene nel nostro Paese che non deve azzardarsi a mancare di rispetto a una donna. Figurarsi stuprarla. In Germania quest’opera di istruzione è cominciata dopo il Capodanno di Colonia. Da noi francamente non so a che punto siamo.

Certo, è giusto aspettarsi che lo Stato faccia il suo, che il Comune eviti ghetti o zone di degrado addirittura nel suo salotto buono. Ma noi? Noi che facciamo? Se questo tema non diventa argomento di azione e non di lamentazione, altri stupri si aggiungeranno. E mentre celebriamo Roma invasa da una massa di turisti come mai negli ultimi anni, dovremmo arrenderci all’umiliazione di sapere che chi viene a Roma per turismo prima stipula un’assicurazione anti-violenza? Forse l’ultima, bruttissima storia avrà la forza di svegliarci da questo inspiegabile torpore. E dire «Basta!». Quell’immagine di donna non più giovane, nuda e legata nel cuore di Villa Borghese è più di una metafora. E noi, che un tetto l’abbiamo e che abbiamo voce, dovremmo spenderla anche per lei.
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