Istigò alla violenza, arrestato l’ultrà Genny ’a carogna

di Piero Mei
3 Minuti di Lettura
Martedì 23 Settembre 2014, 00:25 - Ultimo aggiornamento: 01:07
Ci volevano davvero quattro mesi e mezzo (i fatti sono del 3 maggio, quando si disput la finale della vergogna, Coppa Italia, stadio Olimpico di Roma, Napoli e Fiorentina in campo) per arrivare alla conclusione che quel tifoso arrampicato sulla balaustra, identificato dal nome d’arte di Genny ’a carogna, fosse un riconosciuto capobranco, come da ordinanza di custodia cautelare appena eseguita?



E per appurare che lo stesso Genny aveva chiesto di parlare (la concertazione?) con Capitan Hamsik, riconoscendo solo l’autorità di Marek e non quella delle Forze dell’Ordine? E che la maglietta che indossava (“Speziale libero”, cioè solidarietà a un ragazzo condannato per la morte dell’ispettore di polizia Raciti durante disordini da calcio, ancora!, a Catania) fosse contro la legge che vieta striscioni e altre scritte d’inno a reati? E che il tutto, fra le altre accuse, configurasse la resistenza a pubblico ufficiale, dentro e fuori lo stadio, prima della partita?



La risposta a queste domande iniziali, visto l’arresto di ieri poi mutato nei domiciliari, è una triste serie di sì: l’immediatezza, la rapidità che in tutto caratterizza i nostri giorni, non è nella giustizia, con o senza maiuscole. Non c’è chi, fosse allo stadio o davanti alla tv, si sorprenda degli addebiti. E non è giustizia sommaria.



Ci voleva, poi, di essere quasi alla vigilia della partita più a rischio dell’anno, Napoli-Roma in calendario l’1 novembre, festa di tutti i Santi, per far scattare il provvedimento che aggiunge olio al fuoco e sale alle ferite delle diverse tifoserie, un tempo gemelle, i gloriosi tempi del ciuccio allo stadio, e oggi dichiaratamente nemiche? È l’orologeria al contrario. Non che si dovesse aspettare, se la notizia di reato è venuta fuori soltanto adesso, ma perché soltanto adesso?



Un ragazzo non c’è più, Ciro Esposito, e questo è davvero il peggio della storia, perché se è impossibile rassegnarsi alla morte d’un ragazzo, lo è ancora di più quando la scena del crimine non è che una partita di calcio. L’uomo accusato del delitto giace, ferito a sua volta, in un letto d’ospedale, e la meccanica di quello che è avvenuto quel giorno a Tor di Quinto è ancora da chiarire, insieme con le molte domande sul perché e percome del concentramento dei tifosi del Napoli proprio lì, e se l’ordine pubblico fosse garantito dalle misure prese, la prevenzione e così via. Anche se è un mondo spaventoso quello nel quale ci si debba occupare e preoccupare dell’ordine pubblico per il pallone: ma questo teniamo.



La madre di Ciro Esposito, che molto si è spesa con gesti e parole per sottolineare la necessità del mai più, la orrenda stupidità della vendetta, ora dice che Genny meritava un premio perché ha evitato un disastro peggiore. Può darsi che quella trattativa abbia avuto l’effetto di stemperare l’angoscia della situazione e il pericolo della stessa. Ma non è questo il punto, non di eroismo si tratta.



Il punto è quello iniziale: servivano quattro mesi e mezzo per conclusioni cui si era arrivati già al fischio d’inizio, senza sommarietà di giudizio? L’esecuzione di un provvedimento, sicuramente legale e dovuto, quasi alla vigilia di una nuova possibile occasione di scontro, era così indispensabile all’indagine? La risposta è no. È molto meglio la retorica delle cose buone, il ciuccio di Tevez goleador, nonna Aurora abbracciata in tribuna da Florenzi-bomber. Bello e impossibile un calcio così?