Imprenditori contro il pizzo, a Bagheria rivolta anti-boss

di Salvatore Lupo
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Sabato 21 Novembre 2015, 00:35 - Ultimo aggiornamento: 3 Novembre, 00:44
Ormai capita. Il pubblico apprende di un’operazione di polizia svoltasi a Bagheria contro una delle mafie più antiche, e basata anche sulle denunce di imprenditori e commercianti determinati a rompere la catena del pizzo.



Numerose sono d’altronde le informazioni su un associazionismo anti-racket fiorito già da diversi anni anche a Palermo e in altre zone di più radicato inquinamento. Quanto sono mutati i tempi. A Palermo, un ventennio fa, le vittime dell’estorsione identificate senza ombra di dubbio grazie ai libri mastri della famiglia Madonìa ostinatamente negavano di aver mai pagato alcuno.



Io non posso dimenticare il 1991, quando Libero Grassi fu assassinato. Il silenzio assordante delle associazioni industriali palermitane accompagnato dal chiacchiericcio degli industriali, i quali si chiedevano se quel loro collega fosse un pazzo o peggio un anarchico. Il mondo economico isolano che accusava le inchieste del pool antimafia di impedire il regolare andamento degli affari, mentre nelle strade si accumulavano i cadaveri dei morti ammazzati. In tanti sostengono che il solo parlare di mafia significa «diffamare la Sicilia». Parliamo d’altronde di un intreccio ben più antico. Quando l’estorsione riesce a mascherarsi da protezione si realizza una sorta di sintonia tra vittima e carnefice.



Leggiamo Gaetano Mosca, 1901: si agisce «in maniera che la vittima stessa, che in realtà paga un tributo alla cosca, possa lusingarsi che esso sia piuttosto un dono grazioso o l’equivalente di un servizio reso anziché una estorsione carpita colla violenza». Tale solidarietà rende possibile la penetrazione mafiosa nel mondo degli affari. I criminali mascherati da protettori diventano soci e finanziatori. La mafia assoggetta l’impresa e l’impresa strumentalizza la mafia. Il meccanismo della concorrenza viene deformato. Il gioco degli interessi legittimi vanificato.



Le cose sono in parte cambiate negli ultimi vent’anni, e bisogna chiedersi il perché. La prima risposta è questa: perché la collettività nazionale, la collettività regionale e quella locale, a Bagheria come altrove, hanno individuato la mafia come una grande minaccia. La reazione statale al terrorismo corleonese degli anni ’80 e dei primi anni ’90 ha abbassato la soglia dell’impunità. Sono nati nuovi apparati, nuove polizie e magistrature, nuovi sistemi normativi. La cosiddetta piovra non appare più invincibile. Generazioni dei suoi quadri e dirigenti stanno in galera. Il mutamento d’altronde non è stato solo istituzionale. Abbiamo avuto un robusto flusso antimafia anche a livello di opinione ovvero – come spesso si dice – di società civile. I due flussi si sono sostenuti l’uno con l’altro, si sono aperti reciprocamente la strada.



Tutto bene, dunque? Non direi. La cronaca siciliana degli ultimi tempi è piena anche di fallimenti, di opportunismi e, si potrebbe dire usando un termine forte, di tradimenti dell’antimafia. Quella istituzionale, quella politica, quella imprenditoriale. C’è il dubbio che la reazione che ha preso forma nel periodo dello stragismo corleonese sia inadatta a fronteggiare una mafia non più stragista e corleonese, indebolita forse ma non per questo sconfitta. La mia impressione è che il passato abbia lasciato il terreno ingombro di macerie, che solo un grande impegno collettivo riuscirà a sgomberare.