Giornata mondiale degli oceani: ecco perché e quali sono i pesci che rischiano l'estinzione

Giornata mondiale degli oceani: ecco perché e quali sono i pesci che rischiano l'estinzione
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Giovedì 8 Giugno 2017, 15:31 - Ultimo aggiornamento: 9 Giugno, 09:22
Pesci di grossa taglia a rischio estinzione, 39 stock ittici sovrasfruttati, nasello 5 volte oltre soglia sostenibile, 20.000 tartarughe catturate dalla pesca a strascico solo nel 2014, desertificazione dei fondali, altissimi costi energetici. Sono le conseguenze della pesca industriale denunciate da MedReAct - Mediterranean Recovery Action, organizzazione che promuove azioni di recupero della biodiversità marina nel Mediterraneo, in occasione della Giornata Mondiale degli Oceani. A confermare il rischio di estinzione in Europa per diverse specie di pesci di grossa taglia, come anche per gli squali e le razze, un nuovo studio pubblicato da Nature Ecology & Evolution. Colpa dei lenti tempi di maturazione, dei bassi tassi di natalità, ma soprattutto dei prelievi eccessivi da parte della pesca professionale e ricreativa. Lo stesso studio rivela che nel Mediterraneo la percentuale di stock ittici sovrasfruttati è di molto superiore rispetto al Nord Atlantico. I ricercatori hanno verificato che tutti i 39 stock ittici Mediterranei esaminati risultavano sovrasfruttati, primi fra tutti il nasello, pescato anche cinque volte i livelli ritenuti sostenibili.

L'Unione Europea ha calcolato che per una tonnellata di pesce catturato con reti a strascico i pescherecci di 24-40 metri consumano ben 4.258 tonnellate di gasolio, a fronte di 169 litri di gasolio consumati da un peschereccio delle stesse dimensioni per la pesca a circuizione. «Eppure - denuncia MedReAct - sono proprio i pescherecci a strascico i principali beneficiari dei contributi europei per la pesca, dalle agevolazioni per il gasolio, ai fondi per l'ammodernamento, per il fermo temporaneo che ad oggi non ha prodotto nessun risultato tangibile per il recupero degli stock». «Per celebrare la giornata degli oceani, l'Ue dovrebbe riconsiderare il finanziamento della distruzione del Mediterraneo con i soldi dei contribuenti europei ed evitare che il Mare Nostrum si trasformi in Mare Mortum.

In occasione della Giornata mondiale degli Oceani, per sollevare l'attenzione e raccogliere dati e testimonianze dirette sull'inquinamento da plastica in mare, parte oggi dalla Spagna un tour di ricerca scientifica condotto dalla Rainbow Warrior, la nave di Greenpeace che toccherà anche Italia, Croazia, Grecia, per concludersi sulle coste bulgare del mar Nero. Nel Mediterraneo circa il 96% dei rifiuti galleggianti è composto da plastica. Un problema che purtroppo non interessa solo la superficie del Mare Nostrum, dato che rifiuti in plastica sono stati ritrovati anche a più di 3 kilometri di profondità. I livelli di accumulo di questo materiale nel Mediterraneo sono comparabili a quelli delle aree tropicali conosciute come «zuppe di plastica». Per questo Greenpeace invita tutti a firmare una petizione rivolta ai governi europei, affinché si impegnino per la graduale eliminazione dei prodotti usa e getta in plastica, come bicchieri, posate e buste.

«Secondo alcune stime, ogni anno a livello globale dalle 192 nazioni costiere del Pianeta finiscono negli oceani tra i 4,8 e 12,7 milioni di tonnellate di plastica. Tutto ciò è semplicemente inaccettabile - dichiara Serena Maso, campagna Mare di Greenpeace Italia - Riciclare non basta a risolvere il problema dell'inquinamento da plastica, i governi dovrebbero prima di tutto dare priorità alla prevenzione del problema alla fonte, ad esempio riducendo gli imballaggi e i prodotti monouso, per poi puntare sul riutilizzo e infine sul riciclo». La nave Rainbow Warrior di Greenpeace sarà in Italia dal 22 giugno al 9 luglio. Il tour partirà da Genova, toccherà la Campania e si concluderà in Adriatico. Tanti gli eventi e le attività di informazione per i cittadini, organizzati con la collaborazione scientifica dell'Istituto di Scienze Marine del Cnr di Genova, la Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli e l'Università Politecnica delle Marche.

La scienza offre un'alternativa 'biò alle microsfere di plastica che si trovano nei prodotti per la cura della persona - esfolianti e i dentifrici, creme solari e filler - e che inquinano i mari finendo nella catena alimentare. In occasione della Giornata mondiale degli oceani che ricorre oggi, l'università inglese di Bath pubblica infatti uno studio in cui illustra la creazione di microsfere di cellulosa, biodegradabili e quindi non dannose per l'ambiente. Dal diametro inferiore agli 0,5 millimetri, le microsfere di plastica sono così piccole da non essere filtrate dagli impianti di depurazione delle acque. Entrano così in mare, dove vengono ingerite dai pesci e, con loro, possono arrivare sulle nostre tavole.

Come evidenziano i ricercatori nello studio pubblicato sulla rivista Sustainable Chemistry & Engineering, si calcola che per ogni doccia fino a 100mila microsfere possano finire negli oceani, contribuendo agli 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici che ogni anno si 'tuffanò in mare.
Le microsfere sono al centro della campagna #CleanSeas del Programma Onu per l'ambiente (Unep), che chiede ai governi di metterle al bando insieme agli oggetti monouso di plastica entro il 2022. Come alternativa alla plastica, i ricercatori universitari hanno sviluppato un modo di produrre microsfere biodegradabili e rinnovabili con la cellulosa proveniente da diversi materiali di scarto. «Le microsfere usate nell'industria cosmetica sono spesso in polietilene o in polipropilene, polimeri derivati dal petrolio che impiegano centinaia di anni per degradarsi», spiegano gli scienziati. «Noi abbiamo sviluppato un modo di fare microsfere dalla cellulosa, che non solo proviene da una fonte rinnovabile, ma si biodegrada in zuccheri innocui».




 
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