Per il collegio, il Senatur era consapevole della truffa considerato che «i suoi familiari e persone del suo entourage - scrivono i magistrati - erano i beneficiari delle spese, anche ingenti, a fini privati», che «i rimborsi mensili forfettari e in nero, anche per attività inesistenti e comunque non documentate erano erogati anche a favore dei suoi stretti congiunti e collaboratori», che «per ragioni di carica aveva certamente contatti continui con Belsito che non vi era nessuna logica ragione di effettuare spese ed erogazioni a favore di Umberto Bossi e dei suoi familiari a sua insaputa». Le prove delle irregolarità e dell'uso privato dei rimborsi, «sono nelle telefonate fra la segretaria e Belsito, nella lettera di Riccardo Bossi che chiede al tesoriere di saldare alcuni suoi debiti e che premette di avere l'autorizzazione del padre».
I giudici si soffermano anche sulla gestione della contabilità, definendola «caotica» e «incredibile», con modifiche dei registri anche a esercizi già chiusi.
I magistrati ricostruiscono anche la vicenda dei conti off-shore a Cipro e in Tanzania e dell'acquisto dei diamanti. «Belsito racconta che Bossi era consapevole del suo progetto di fare quel tipo di investimenti e trasferimenti monetari e lo aveva avallato perché voleva fare un "tesoretto" per un'eventuale campagna elettorale contro Roberto Maroni». Per quanto riguarda la confisca di circa 49 milioni di euro, i pm hanno deciso oggi che lunedì chiederanno al tribunale di estendere la confisca alla Lega e di non fermarsi ai circa due milioni già sequestrati. I giudici sostengono che i soldi da confiscare siano solo quelli «pertinenti al reato», mettendo quindi un limite al blocco di quanto dovesse entrare da ora in poi nelle casse del partito.
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