Intervista a Franco Gabrielli: «Mafia, reato da cambiare»

Intervista a Franco Gabrielli: «Mafia, reato da cambiare»
di Massimo Martinelli
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Domenica 23 Luglio 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 24 Luglio, 08:54

Dobbiamo convincerci tutti che la corruzione è l’incubatrice delle mafie. E invece vedo un atteggiamento da scampato pericolo nei confronti della sentenza sul Mondo di Mezzo, come a dire: la corruzione è una cosa e la mafia è un’altra. E questo, secondo me, è un approccio molto pericoloso».

Pochi mesi dopo la grande retata di Mafia Capitale Franco Gabrielli fu nominato prefetto di Roma, con due grane da sbrigare sulla scrivania: il Giubileo alle porte e la relazione della Commissione d’accesso nominata dal Viminale che doveva valutare il livello di infiltrazione mafiosa in Campidoglio. Oggi Gabrielli è il capo della Polizia e sull’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso contestata ai principali imputati - e caduta in dibattimento - ha un’idea precisa: «Dal mio punto di vista, l’accusa da cui muove questa inchiesta rappresenta una sorta di interpretazione avanzata del rapporto tra la corruzione e la mafia. Leggeremo le motivazioni della sentenza per vedere se questa interpretazione è troppo avanzata: Ma se viene considerata troppo avanzata, a questo punto questa inchiesta interroga il legislatore».

Significa che sarebbe opportuno modificare l’articolo 416 bis che punisce appunto l’associazione a delinquere di stampo mafioso?
«Intanto bisogna chiarire che parliamo di una sentenza di primo grado di cui peraltro conosciamo solo il dispositivo; deve intervenire ancora una sentenza di merito e poi la Cassazione. Bisogna ricordare che sono già intervenute sentenze del Riesame e di Cassazione che si sono espresse in maniera difforme sugli stessi imputati. Detto questo, credo che se non ci sono le condizioni affinché un giudice - nella sua legittima autonomia - non aderisca a questa interpretazione avanzata delle procura di Roma, vada cambiato lo schema legale del 416 bis. Se la sentenza non coglie la modernità dell’impostazione dell’accusa e la correlazione tra corruzione e mafia, bisogna rimodellare la formulazione del reato di 416 bis».

Quindi lei non pensa che Pignatone e gli altri magistrati della procura di Roma siano usciti sconfitti da questo processo?
«Invito tutti a una grande cautela sui giudizi di questo tipo. Ho letto sui giornali che Pignatone sarebbe stato sconfitto e mi consenta una digressione: quando arrivai a fare il prefetto di Roma mi trovai subito alle prese con due questioni complesse e delicate: la macchina organizzativa del Giubileo da preparare e gli imminenti esiti della commissione d’accesso che avrebbe potuto portare allo scioglimento per mafie del Comune di Roma. Siccome mi capita spesso di trovarmi un po’ da solo, l’unica persona con la quale ebbi a interloquire e che rappresentò per me un punto di riferimento ineliminabile fu Giuseppe Pignatone, che con la sua capacità di essere prima di tutto un uomo delle istituzioni mi disse che secondo lui non c’erano gli estremi per arrivare allo scioglimento del comune di Roma per mafia. Sottolineo che questo avvenne in un paese in cui troppo spesso gli interessi di bottega prevalgono su interessi generali: in fondo in quel momento ad un povero prefetto che arrivava nella Capitale, un procuratore interessato a conseguire un risultato immediato avrebbe consigliato altro. Perché è ovvio che lo scioglimento per mafia avrebbe costituito un punto di riferimento forte per la procura, una sorta di punto fisso che avrebbe avuto i suoi effetti anche nei successivi sviluppi del dibattimento processuale. E invece, con onestà intellettuale, mi disse che Roma non andava sciolta. Mi piace ricordarlo oggi in un momento in cui qualcuno parla di sconfitta della procura, perché in quell’occasione si è visto lo spessore dell’uomo e del magistrato».

Quindi nessuna sconfitta?
«Non credo che sia una sconfitta. Soprattutto perché non è vero che a Roma e nel Lazio non ci sono le mafie. Purtroppo ci sono e ci sono sentenze che lo dicono. Ma questa vicenda, che io non ho mai chiamato Mafia Capitale ma indagine sul Mondo di Mezzo, dovremmo leggerla con un occhio diverso e da una prospettiva diversa».

Quale prospettiva?
«La stessa con la quale la procura di Roma, fin dall’inizio aveva individuato il fenomeno. Disse che eravamo in presenza di un qualcosa di originale e di originario. Che proprio per la sua caratteristica particolare, questo tipo di organizzazione aveva i profili dell’associazione mafiosa, che però si caratterizzava per alcune peculiarità diverse da quelle delle mafie storiche. Insomma, è l’interpretazione avanzata del rapporto che lega in maniera indissolubile la corruzione alla mafia».

Un’interpretazione avanzata che, tuttavia, il tribunale non sembra avere colto?
«Non vorrei che si risolvesse tutto in una disputa da stadio, sono contrario all’approccio manicheo secondo il quale o ci sono i pm che non hanno capito niente o giudici che non hanno colto questa interpretazione. A volte la verità sta nel mezzo, c’è una procura più sensibile che ha buttato il cuore oltre l’ostacolo e c’è un giudice che non ha interpretato alla stessa maniera».

E come se ne esce?
«Se ci sono le condizioni affinché questa interpretazione possa essere sostenuta anche in un successivo giudizio, allora la giurisprudenza colmerà il gap. Se questa interpretazione non troverà accoglimento pieno nella giurisprudenza, credo che sia maturo il tempo perché un certo tipo di corruzione sia letta come una forma di incubazione delle mafie e quindi in qualche modo debba essere trattata alla stessa stregua del contrasto alle organizzazioni mafiose».

Lei ritiene che questa visione del reato di mafia sia legata al mutamento di pelle della mafia stessa, da organizzazione dedita a traffico di droga, racket, delitti, a holding interessata agli appalti pubblici?
«Una delle regole che ci hanno insegnato sui banchi di Giurisprudenza è che la legge segue il fatto. Quindi la capacità dei tribunali per un verso e della legge per l’altro deve essere anche quella di cogliere i mutamenti che avvengono nelle forme criminali. Io credo che nel caso in questione distinguere tra corruzione e mafia sia una errore esiziale, quasi a voler dire che la mafia è una cosa seria e la corruzione è qualche cosa che può essere anche fisiologicamente tollerato. Dobbiamo fare un salto di qualità: c’è stata una stagione nel nostro Paese in cui la mafia era relegata a fenomeno territoriale, anche a un qualcosa che aveva a che fare con modalità di lotta politica, per cui si accusava l’avversario di essere mafioso immaginando che la sola etichettatura fosse un marchio di infamia e che nulla più si avesse a pretendere. Poi ci si è resi conto che la mafia era qualcosa di più serio, che non era limitato solo a contesti geografici, che era un fenomeno pervasivo, che attentava pesantemente anche all’economia».

Mafia Capitale ha dimostrato tutto questo?
«Credo che l’importanza storica di questa inchiesta sia quella di aver sottolineato in maniera forte e originale come un certo tipo di corruzione pervasiva, che attacca le istituzioni sia un’espressione della mafiosità».

Una delle caratteristiche del reato di associazione mafiosa è la forza intimidatrice del sodalizio. Nel caso di Mafia Capitale, la procura l’aveva individuata in quella “riserva di violenza” fornita dalla figura di Carminati. Ma se un imprenditore si limita a corrompere un dirigente pubblico con una busta piena di contanti - senza minacciarlo - si può parlare di mafia?
«La procura di Roma ha dovuto necessariamente trovare un addentellato sulla forza intimidatrice dell’associazione, perché lo schema legale del 416 bis prevede questo. Ecco perché io dico che se gli ambiti interpretativi consentono di far refluire queste forme di corruzione sempre più pervasive nel reato di mafia, bene così. Se ciò non è, e magari il giudice nelle sue motivazioni ci spiegherà che ciò non può essere - ma non perché sia meno sensibile, ma perché la norma non può essere interpretata in quella maniera, allora credo che sia arrivato il tempo per una modifica dello schema legale del 416 bis».

Lei pensa che cambiare in maniera estensiva il reato previsto dal 416 bis possa diventare una priorità del Parlamento?
«Intanto parliamo di un Parlamento che volge alla sua fase finale. Non ci sarebbero nemmeno i tempi tecnici per approcciare un problema così importante. Mi auguro che il prossimo Parlamento, qualunque maggioranza esprimerà, metta tra i primi punti dell’ordine del giorno la lotta vera e senza quartiere alla corruzione».

Basterà cambiare lo schema legale del 416 bis?
«Nessuno è così ingenuo da pensare che la corruzione sparirà. Io sono dell’idea che non sparirà la corruzione come non spariranno le altre forme criminali, perché attengono al profilo degli essere umani. La sfida è far si che i fenomeni patologici siano relegati ad una eccezionalità e non ad una disarmante fisiologia. La strada più indicata, secondo me, è quella di arrivare all’emissione di pene severe, come quelle stabilite dal tribunale di Roma per il Mondo di Mezzo, e soprattutto pene certe».

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