Inseguito e colpito senza pietà: il racconto della notte di sangue

Inseguito e colpito senza pietà: il racconto della notte di sangue
di Raffaella Troili
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Mercoledì 29 Marzo 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 12:35


ROMA Tornate indietro nel tempo. La macchina che balla con voi, gli appuntamenti a catena, e più siamo e meglio è, la notte che sembra ogni volta troppo corta, il buio che non fa paura, perché non si ha paura di niente. Spigliati e incoscienti, per quel senso di protezione che danno gli amici di sempre, il solito giro di locali, le stesse facce conosciute in piazza. Tornate indietro nel tempo per provare, anche se non è per niente facile da capire, come è banale morire per colpa di una spinta di troppo davanti a un bancone, ritrovarsi esanimi sulla stessa piazza dove un minuto prima si scherzava, preso a calci come un pezzo di stoffa, pestato a morte da buttafuori che devono proteggere. Perché l’ultima serata di Emanuele Morganti fa tremare per la sua normalità.

IL PRIMO APPUNTAMENTO
Siamo a Tecchiena, frazione di Alatri. Qui vive Emanuele, qui si incontra con gli amici, li raggiunge con Ketty, la fidanzata. Sono le 23, i due arrivano nel bar “Bei capelli”, sotto casa di un amico. «Aspettatemi, anzi passatemi a prendere», ha chiesto un’ora prima al telefono, ci tiene a stare con loro ma non c’è posto in macchina. «Vabbé allora mi organizzo, chiedo la macchina a papà». Fanno sempre così lui e Ketty, una volta li accompagna un fratello di lei, un’altra si fanno prestare un’auto dai familiari, il modo per stare insieme lo trovano sempre. Anche se lei sta a Fumone, a una ventina di minuti da Tecchiena. Quando arrivano è già tempo di andar via, la notte è cominciata, direzione centro di Alatri. A piedi, ridendo di tutto e di niente, il cielo fesso e complice della primavera, raggiungono il bar 91. Altro giro, altra corsa, è mezzanotte sono a piazza Regina Margherita. Hanno appuntamento con altri amici del gruppo. «Prima di venire comprami le sigarette», dice Emanuele a un amico.

 

L’ULTIMA TAPPA, IL MIRO
Si dividono, qualcuno vuole entrare al Miro, altri tornano a casa, altri ancora restano a chiacchierare fuori, ci sono altri amici e dentro fa caldo, il locale è piccolo e strapieno. Ma è normale, c’è buona musica, qualche personaggio impetuoso ma basta stargli alla larga. Finora almeno è andata così. E loro hanno la testa sulle spalle, tutti. Emanuele e Ketty entrano con un amico, ogni tanto escono a fumare, si siedono sulla fontana della piazza. All’una e trenta rientrano. C’è chi balla, chi come loro due si fa largo nella calca, e va al bancone. Sembra di vederli, lui così protettivo e galante, lei sorridente, e innamorata persa. 

L’INIZIO DELLA FINE
Mentre Marco si mette a ballare, la coppia ordina uno shortino di tequila, con loro c’è anche Riccardo. Si godono la serata, aspettano il loro turno, senza fretta. La tragedia prende forma quando un ubriacone che già stava dando fastidio a tutti si avvicina a loro. Qualcuno dice sia un albanese che vive nel Casermone di Frosinone, altri D.P., italiano, vuol esser servito subito e vuol pagare solo due euro, sgomita, battibecca con la barista, si appoggia a Emanuele, lo spinge, lo urta. Tra i due scoppia una lite, spinte, strattonate, l’energumeno afferra un portatovaglioli dal bancone e colpisce Emanuele. Scoppia la rissa, calci e pugni, tutti verso il giovane di Tecchiena. Il locale si divide in due, qualcuno scappa fuori, altri cercano di separarli, anche un buttafuori, Armando, biondo albanese (Xhemal Pjetri) e un altro italiano, i tratti scuri. Sono grandi e grossi, vestiti di nero, gridano “al Banco al Banco”, così arrivano i rinforzi: Damiano Bruni, Manuel Capoccetta, Maichal Ciotoli e si accaniscono solo su Emanuele, lo prendono per il busto, lui si dimena, la maglietta arancione si strappa, lo portano in un angolo vicino a una colonna, lo prendono a calci e pugni. E lo trascinano fuori, con la forza.

TUTTI CONTRO UNO
Tutti contro uno, Emanuele non ci sta, continua a gridare, ce l’ha con chi dovrebbe proteggerlo e lo sta malmenando, il sangue gli esce dalla bocca. «Attento, quelli sono pericolosi», Armando ha già capito come andrà a finire. Il locale è fuori controllo, c’è anche un gruppo di albanesi amici di Paolo Palmisani, li conoscono tutti, perché danno fastidio ai clienti, si muovono a sciame meglio stargli alla larga. La lite continua fuori: i quattro buttafuori non mollano Emanuele, lui ripete: «non sono io che ho dato fastidio», ad aiutarlo accorrono Riccardo, Lorenzo e Gianmarco, provano a difendere il loro amico. Mario Castagnacci e Paolo Palmisani hanno già infierito prendendo a schiaffi Emanuele. C’è anche uno più grande, un cinquantenne, capelli bianchi, il padre di Castagnacci, ma non si sperticherà per dividerli, anzi. 

L’INSEGUIMENTO
Comunque Emanuele, riesce a divincolarsi, scappa verso la parte alta della piazza, verso via dei vineri. Ma il branco di strafatti ha deciso di dargli una lezione: i buttafuori, gli arrestati Castagnacci e Palmisani lo rincorrono, viene strattonato, colpito alla testa, al collo con un manganello, Paolo Palmisani ha in mano una chiave a L di quelle che si usano per sbullonare le ruote, prima è andato in macchina, voleva prendere una pistola, la fidanzata gliel’ha impedito. Ripete: «Ah sì, mo ci penso io...». Sono una ventina ormai, lo prendono a calci e pugni mentre lui è a terra. Gianmarco neanche molla l’amico, riesce a mettersi tra Emanuele e i buttafuori, ne prende tante anche lui. Emanuele corre, corre, «Ketty dobbiamo scappare», raggiunge la fidanzata, le tocca il viso dolcemente, ma è ancora braccato. Quando l’amico lo raggiunge lo trova a terra, l’uomo adulto col maglione bianco gli sta sopra. 
All’altezza degli uffici del Giudice di Pace Palmisani e Castagnacci sferrano altri pugni, Emanuele crolla privo conoscenza, sbatte la testa contro il montante di una macchina, ma quelli continuano a colpirlo, gli amici provano a fare da scudo. Non dà segni di vita, non respira, ha la lingua tra i denti, con i calci l’hanno spinto sotto l’auto, gli amici provano ancora a soccorrerlo. E’ troppo tardi. «Chi arrivava menava, anche se non c’entrava niente» diranno gli amici sotto choc. E dopo, quando arriveranno carabinieri e 118, lo sfregio finale, ridendo entreranno in un bar dicendo: «L’abbiamo tolto di mezzo, l’abbiamo ammazzato». 

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