Dramma nel teatrino/ Il perdonismo da baraccone che svilisce il caso Moro

di Mario Ajello
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Giovedì 15 Marzo 2018, 00:04
Gli odii senza fine sono sbagliati, la forza del perdonare è una grande virtù civile, non compresa dai fanatici e dagli ideologi. Però, quanto sono indisponenti gli ex terroristi, gli assassini di Aldo Moro, che impartiscono lezioncine sui media, accolti con eccesso di gentilezza o addirittura di compiacenza mascherata da curiosità storiografica, per i 40 anni del rapimento (e poi dell’uccisione) dello statista democristiano nel marzo 1978. 
Guarda caso, questo è anche il cinquantennale del ‘68 e il narcisismo stampato, televisivo e da docufiction di una generazione che, nei suoi casi peggiori, si fece sanguinaria mescola il mito della contestazione degli «anni formidabili» con il successivo terrore degli «anni di piombo». Ma non c’è una sillaba di Adriana Faranda (la superstar di questi giorni), di Barbara Balzerani (la quale addirittura a gennaio aveva scritto su Facebook: «Chi mi ospita oltre confine, così mi salvo dai fasti del quarantennale della vicenda Moro?»), di Mario Moretti, di Valerio Morucci e degli altri brigatisti a reti unificate da cui traspaia autentica contrizione morale, rifiuto dell’auto-indulgenza e dell’accondiscendenza degli intervistatori, vera riflessione critica. A riprova della statura dei personaggi che hanno insanguinato l’Italia. 

L’esibizionismo pseudo-rivoluzionario di una generazione trova insomma eco e amplificazione nel baraccone mediatico. Senza nessuna pietà per le vittime. E’ tipico di un Paese che non sa stare all’altezza delle proprie tragedie questo festival del perdonismo, ammantato di voglia di capire. Ed è tutto, da parte dei reduci che posano da vittime perché «lo Stato è assassino» (copyright Toni Negri che sfrutta l’uscita della sua torrenziale autobiografia per incarnare in questo show la gradevole icona mediatica del «cattivo maestro»), un relativizzare. Sì, fu un «errore» (uccidere Moro), ma la società di allora..., quell’epoca..., il contesto..., il protagonismo delle masse..., il rifiuto del sistema borghese... Espressioni rancide. Come questa della Faranda: «Ho contribuito alla morte di Moro ma quelle erano le regole». Come può essere accettabile, oggi, un orrore espressivo così? Nella mescolanza di tutto, del trito e ritrito, del nulla che gli ex terroristi nel loro raccontano aggiungono al pieno delle cose che ancora non si sanno, c’è un senso malinteso e mal interpretato di memoria. E si finiscono, con la complicità di chi ancora si ostina a mettere in scena le figure e i figuri di una stagione tremenda, per confondere le acque. Si arriva così a non capire che la figura di Moro appartiene alla storia della politica italiana, mentre quella dei suoi assassini riguarda la criminologia. Anche se loro la buttano sul sociologico. E sul rimpianto: sì, la rivoluzione è andata male, ma noi ci abbiamo provato. Leonardo Sciascia, nel 1978, diceva: «Io sto con Moro. Quel Moro che politicamente ho sempre avversato e che voglio difendere». Stare dalla parte di Moro oggi significa non fingere di credere che i racconti esibizionistici degli ex terroristi possano aggiungere qualcosa alla comprensione di quella vicenda. E ogni volta che un ex brigatista si riempie la bocca di «salto di qualità» («Facemmo un salto di qualità nella nostra lotta», «Fece un salto di qualità il livello dello scontro») la pomposa vuotezza gergale, dunque morale, di queste formule annienta un po’ di civiltà italiana.

E viene da sobbalzare, indignarsi è sarebbe concedere troppo, quando si sente dire, da parte di Morucci, che «il brigatista era un monaco», o viene ricordata la bontà di cuore di Prospero Gallinari il quale, con la mitraglietta in pugno, si mise a piangere mentre lui e gli altri stavano sparando a Moro. Il narcisismo sessantottardo in salsa brigatista è animato insomma da una serie di auto-testimonial del passato di un’illusione, che posano da maestrini e dicono e non dicono, depistano e alludono. Sostenendosi nelle loro vecchie complicità e godendosi il momento. Ed è triste un Paese che sa soltanto rievocare, oltretutto con l’aiuto di chi dovrebbe tacere o parlare chiaro, e non ricordare e rispettare, e perciò si affida all’amarcord di questi personaggi. Davanti ai quali, bisognerebbe comportarsi come Nanni Moretti. Il quale, nel film di Mimmo Calopresti «La seconda volta», interpreta un professore che ha ancora nel cranio la pallottola che gli sparò una brigatista. Dopo vent’anni, vuole conoscere la sua carnefice, ma poi si ritrae. A riprova che va tenuta quella giusta distanza che, in tanto bla bla, è andata smarrita. 
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