«Si, sono io, Provenzano». Microspie, sporcizia e avanzi di cibo: l'ultimo covo del boss

«Si, sono io, Provenzano». Microspie, sporcizia e avanzi di cibo: l'ultimo covo del boss
di Lucio Galluzzo
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Mercoledì 13 Luglio 2016, 12:37
CORLEONE - La stamberga di Monte dei Cavalli gli dava sicurezza. A tre chilometri dal Paese, affacciata su una stradina che si arresta sotto la collina. La percorre chi ha in zona la villetta estiva o terreni da coltivare. Gente del luogo, Bernardo Provenzano conosceva tutti. Tutti conoscono le regole per arrivare ai cento anni nelle contrade della gente di rispetto. Il “rispetto”: prima del cancello dell'ultimo covo conosciuto, da un palo un cartello giallo invita: «Uniti nel rispetto dell'ambiente». La casa del contadino siciliano, per quanto povero sia, ha memorie di cultura materiale e lindore. Ma non se ne trova traccia nell'ultimo covo conosciuto del boss. Cinquanta metri quadri tirati su alla buona, un terrazzino dove la pergola ha gettato il primo verde, per fare ombra sul cementato sbrecciato.

Da quel terrazzino lo sguardo segue la strada, si perde nella valle a pascoli di verde smaltato. In alto a destra Provenzano scorgeva le vestigia di Schera, l'antica Corleone, insediamento forse sicano distrutto prima dai romani poi dai saraceni. Gli abitanti allora riedificarono più a valle. Ma proprio dall'antica radice della sua Corleone è scattata la tenaglia. Dalla zona archeologica di Schera i moderni marchingegni tecnologici della polizia lo hanno visto, filmato, seguito. E da quelle postazioni veniva impartito il via libera per i furtivi accessi al covo, per infiltrare le microspie. Ci sono ancora gli avanzi dell'ultima cena su piatti di plastica, provoletta e ricotta. Alle spalle della casa c'è un ricovero per animali, 20 metri per 12, per metà pieno di balle di paglia, sulle quali è adagiata una rete da letto a due piazze. Dal soffitto in laminati di zinco pendono ganci per assicurare i bovini. A sinistra dell'ingresso due Panda, una senza targa, l'altra malconcia con tracce di ricotta che colano dal portellone. A destra dell'ingresso un bugigattolo con gli attrezzi del casaro, spicca una centrifuga in buono stato.

Ovunque c'è sporcizia, trasandatezza. L'ultimo capo di imputazione può derivare dalla violazione di ogni norma igienica nella preparazione di cibi. Dal capannone è spuntato fuori un fucile da caccia e munizioni, regolarmente detenuti dal pastore che custodiva un gregge e Provenzano. E un barattolo con facsimili di propaganda elettorale pro Salvatore Cuffaro e Niccolò Nicolosi, sindaco di Corleone. Il presidente della Regione ha commentato: «Ne ho fatti stampare oltre 3 milioni da distribuire in tutta la Sicilia. Non so se il pastore l'abbia mai dato a Provenzano, ma se ne hanno tenuto conto hanno fatto il peggiore investimento della loro vita». Il boss non temeva il malocchio, un grosso gatto nero schizza da un posto all'altro del covo, per evitare le tute bianche della polizia scientifica. Alla fine si perde tra i cardi delimitati da un filare di susini in fiore. Tra il capanno e la stamberga ci sono quattro metri, il boss viveva in 50 metri quadri, nel bagno c'è Felce azzurra liquido, gli arredi non interessano l'ultimo dei rigattieri. Ovunque c'è unto e sporco stratificati. Ma alle pareti c'è una stampa popolare della Madonna delle Lacrime e un manifesto che riproduce fotografie delle razze dei cavalli autoctoni di San Fratello di Sicilia. La scientifica demolisce tutto, porta via la macchina da scrivere elettrica usata per scrivere i famosi “ pizzini”, molti dei quali trovati all'interno del casolare, recupera le sue attrezzature d'ascolto, sonda muri e pareti alla ricerca di nascondigli. Cerca i bandoli della matassa per ricostruire la rete di protezione della latitanza.

La versione ufficiale è che la polizia a Montagna dei Cavalli è giunta nel modo più diretto, pedinando un cambio di biancheria pulita spedita dalla moglie al marito. Forse è andata proprio così, ma val la pena ricordare anche che ormai dal pentimento di Giuffrè la rete si era smagliata. E dopo quel pentito ne vennero altri, il corredo più ricco venne offerto dagli accompagnatori a Marsiglia, dove Provenzano fu operato per un carcinoma alla prostata. Ognuno apportava un tassello, alla fine emerse un fotofit attendibile. C'era agli atti persino un frammento biologico. «Era un fantasma - commenta il procuratore Pietro Grasso - ora il fantasma lo abbiamo catturato, nella sua Corleone, come avevo previsto. Lo Stato c'è». Dell'irruzione della polizia restano le tracce davanti l'uscio della stamberga. I vetri infranti scricchiolano sotto le scarpe degli agenti.

Provenzano forse questo film del suo futuro lo aveva rivisto mille volte.
Nelle sue condizioni sapeva di doversi aspettare di tutto, anche se poi si scopre di non essere preparati adeguatamente. È sbiancato, non ha tentato reazioni, non aveva armi a portata di mano. Il boss è rimasto nella stamberga con le manette ai polsi e sotto sorveglianza strettissima per un paio d'ore, il tempo necessario per mettere in sicurezza i settanta chilometri da percorrere sino alla sede della Squadra mobile. Ad ogni incrocio una pattuglia, dal cielo gli elicotteri. Quando il cellulare si è fermato dinanzi ad un Palazzo che reca all'ingresso una lapide con troppi nomi di poliziotti uccisi dai boss, è sceso un omuncolo con capelli bianchi, di bassa statura, con gli occhiali ed un giubbotto blu con il bavero alzato. Negli uffici i magistrati Pietro Grasso, Giuseppe Pignatone, Marzia Sabella e Michele Prestipino gli hanno contestato condanne ed accuse. Lui si è limitato a confermare la propria indentità. La sua famiglia gli ha nominato un avvocato di fiducia, Franco Marasà, che potrà incontrare solo tra cinque giorni. In un carcere per ora segreto del centro Italia dov'è stato trasferito con un elicottero partito dall'aeroporto palermitano di Boccadifalco. Intanto un centinaio di giovani lo ha salutato in coro ''bastardo, bastardo''. I poliziotti con il volto coperto mimavano con le mani il segno di Vittoria.
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