Per dar seguito davvero alle parole di Falcone quando, in un istante di euforia, aveva detto: «La gente fa il tifo per noi», e anche perché quel primo botto sull’autostrada Palermo Mazara del Vallo rese a tutti manifesto, nel modo più eclatante e spaventoso, che la mafia poteva arrivare ovunque, colpire chiunque, e non bastava più tenersi alla larga o starsene in silenzio a farsi gli affari propri. Fu allora che i fermenti già serpeggianti in un pezzo della società siciliana si trasformarono in un’antimafia militante in cui io stessa mi riconobbi. Era il tempo in cui bisognava dire forte e chiaro ciò che non eravamo e non volevamo essere! Ora, Di Girolamo è uno di quei giornalisti siciliani che allora erano dei ragazzini e che, da quel fatidico ’92, si sono fatti adulti macinando denunce, inchieste su connivenze e affari in un territorio dove da decenni aleggia l’ombra (e la longa manus) di quel Messina Denaro latitante dal ’93.
La sua storia d’impegno antimafia e di amara disillusione non è un fatto personale, è emblematica piuttosto della parabola di questi vent’anni e passa di comitati, reti civiche, cortei, petizioni per dare al Paese la più innovativa legge sulla confisca dei beni mafiosi, associazioni antiracket, prese di posizione degli industriali, dei commercianti, seminari nelle scuole sulla legalità, marce, e libri, tantissimi libri che indagavano, spiegavano, raccontavano, al punto che, se si era siciliani, secondo i più ortodossi, non ci si poteva permettere di scrivere d’altro che di mafia… finché, come spiega Di Girolamo, «si è dimenticata la sostanza delle cose e ci siamo appiattiti sull’esteriorità dei riti», cioè, su quanto di meglio possa legittimare gigantesche o meschine imposture, con tutto il discredito e l’amarezza che ne consegue. Ecco, non si può non tener conto di questa parabola, dell’odierno svilimento in cui versa la parola «antimafia», nel rievocare quel sabato pomeriggio, il carico di disperazione di quei giorni, le stragi che seguirono, e il desiderio di riscatto, le speranze...
Ora, quel che «scoprimmo» quel pomeriggio di maggio in verità lo sapevamo già, o avremmo dovuto saperlo, se avessimo pensato alla mafia in termini non sensazionalistici, se avessimo avuto almeno il senso del paradossale di un Johnny Stecchino, e capito ad esempio che «il traffico», quello stesso modo delirante di percorrere la nostra città cresciuta nell’arbitrio di quegli interessi affaristico-mafiosi che resero possibile il «sacco di Palermo» era la manifestazione ordinaria di quel potere mafioso capace di condizionare in modo millimetrico e quotidiano le nostre vite, così come lo era, manifestazione ordinaria, quella collina di Pizzo Sella sconciata da un abuso edilizio legalizzato che s’imponeva quotidianamente al nostro sguardo come un monito, un
Così lo scrittore di Racalmuto nel
Non è un caso che questo fu uno dei terreni su cui più diede fastidio padre Puglisi, reclamando per gli abitanti di Brancaccio diritti, cercando di coinvolgere la gente del quartiere in percorsi di cittadinanza attiva, collettivi e condivisi. Il che comporta la messa in discussione di un altro aspetto dell’antimafia: e cioè la trasformazione di quell’iniziale rifiuto in un marchio di identità. Ora, c’è qualcosa di paradossale in questo ostinato definirsi al ribasso per ciò che non si è e non si vuole essere, come se la mafia fosse l’unità di misura su cui costruire - in antitesi - un’identità, quando invece, oggi più che mai (dinanzi a una mafia dai contorni sfumati che si muove su confini incerti tra legalità e illegalità nelle maglie della vita pubblica e dell’economia del Paese), ci si dovrebbe definire piuttosto per aspirazione, si dovrebbero fare seminari nelle scuole su: «ciò che vogliamo essere» come cittadini che esigono di vivere in un Paese moderno fondato su uno stato di diritto, quello stato di diritto che giudici come Falcone hanno incarnato, dando credibilità alle istituzioni che rappresentavano, infondendo fiducia: quel genere di cose che da sempre tolgono terreno alla mafia.
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