Superare le ideologie/ Andare oltre il 25 aprile ricucendo Sud e Nord

di Mario Ajello
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Martedì 24 Aprile 2018, 01:08
Nell’ottobre del 1945, a botta calda, Ignazio Silone avvertiva: «Dopo esserci liberati del fascismo, dobbiamo ora cercare di superare anche l’antifascismo». Fatto (o quasi), si potrebbe dire oggi. Visto che questo 25 aprile sembra segnare la fine del 25 aprile. Almeno per come lo abbiamo conosciuto finora. Perché sono venuti meno tutti gli ingredienti, politici, propagandistici, retorici, su cui in questi 73 anni si è retta la celebrazione di questa data simbolo. La sinistra boccheggia; la destra non si sa più che cos’è (e la Lega non può essere assimilata in toto a quel filone); i parametri ideologici del ‘900, che non è stato un «secolo breve» ma un secolo lungo, sono irrintracciabili; il partito (cioè il Pd) che dovrebbe rappresentare pur tra mille evoluzioni la storia che viene dalla Liberazione, e che nelle sue varie reincarnazioni è sempre stato il cardine dei festeggiamenti del 25 aprile, è in crisi profonda. 

E si sono così liquefatte le dicotomie riconducibili al passato, visto che c’è un movimento, i 5 stelle, capace di proporre indifferentemente un’alleanza di governo ai democrat e ai leghisti. Non può che sentirsi spaesato il 25 aprile in queste condizioni. Al punto che si deve attaccare di nuovo e sempre di più, per dare brividi, per mostrare di esistere, all’unica forma di bipolarismo rimasta in piedi: ebrei da una parte, filo-palestinesi dall’altra che litigano sulle spoglie del 25 aprile e lo utilizzano per altri fini.
Anzi per il solito scopo: continuare a demonizzarsi, anche su un terreno improprio e evidentemente pretestuoso. E’ così triste, solitario y final questo 25 aprile, che neanche lo spauracchio neo-fascista agitato prima del voto, con contorno di anti-fascismo di maniera, quello che Pier Paolo Pasolini da anti-fascista non sopportava proprio, è riuscito a rinverdire.

Il sistema maggioritario aveva potenziato il 25 aprile: basti pensare alla grande manifestazione di Milano nel ‘94, subito dopo che Forza Italia e An erano andate al governo. Adesso non c’è più neanche il Cavaliere Nero a fare da spartiacque e a riacutizzare le divisioni. E così questa festa laica, ma anche ideologica, ha furoreggiato nella Seconda Repubblica e ora che siamo forse nella Terza sembra davvero arrivata al capolinea. Un po’ perché il ricordo dei «momenti forti» di ogni epoca - come ha spiegato nei suoi studi lo storico Gianni Oliva, ora autore della «Grande storia della Resistenza» (Utet) - dura lo spazio di due generazioni, quella protagonista e quella successiva. E poi va spegnendosi. E un po’, anzi molto e i due fattori sono collegati, ormai di quelli che hanno fatto la Resistenza o dicono di averla fatta ne sono rimasti in vita un numero assai esiguo. Basti pensare che l’Anpi, organizzazione basata sul motto anti-storico «ora e sempre Resistenza», conta 12mila aderenti ma tra questi sono meno di 4mila gli iscritti tra gli 85 e i 92 anni. 

Il 25 aprile è debole anche perché è diventato desueto l’anti-fascismo. E a questa doppia debolezza contribuisce il fatto che negli ultimi anni, sempre di più, è stato svelato dagli storici l’inganno così riassumibile: Resistenza come grande guerra di popolo. Come hanno sempre cercato di far credere i comunisti, sapendo che non è vero. E aveva ragione invece, tra i tanti ma con maggiore nettezza liberale dei più, lo storico Rosario Romeo il quale definì la Resistenza «la lotta di pochi dietro cui si sono nascosti i tanti, per nascondere le proprie colpe».

Ed è finito il 25 aprile perché stride, inotre, con una caratteristica odierna. Fu l’incubazione di una classe dirigente, l’inizio della sostituzione di una élite con un’altra e comunque l’anti-fascismo ebbe un ceto professionalmente capace di guidare, il fascismo l’aveva avuto (eccome e spesso di buona qualità, un esempio per tutti: Giovanni Gentile), mentre oggi si fatica a trovare una classe dirigente consapevole di sé e in grado di svolgere il proprio ruolo. Da questo punto di vista, il 25 aprile imbarazza, nell’epoca del “gentismo” e della retorica della politica «dal basso. 

Resta da chiedersi a questo punto: come si sostituisce il 25 aprile? Forse facendo avanzare, al posto di fascismo e anti-fascismo, una nuova dicotomia: liberali e anti-liberali. O magari, riempendo lo spazio lasciato libero dalle ideologie con una nuova idea di Stato. Uno Stato pragmatico, decidente, capace di fare da collante a ciò che chiamiamo patria e che riesca a connettere il Nord con il Sud. Applicandosi alla più evidente diseguaglianza tra le tante presenti in Italia: lo squilibrio economico che penalizza il Mezzogiorno. Bisognoso, insieme al resto del Paese, non di cavalcare la Resistenza ma di riattivare la Ricostruzione.
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