E si sono così liquefatte le dicotomie riconducibili al passato, visto che c’è un movimento, i 5 stelle, capace di proporre indifferentemente un’alleanza di governo ai democrat e ai leghisti. Non può che sentirsi spaesato il 25 aprile in queste condizioni. Al punto che si deve attaccare di nuovo e sempre di più, per dare brividi, per mostrare di esistere, all’unica forma di bipolarismo rimasta in piedi: ebrei da una parte, filo-palestinesi dall’altra che litigano sulle spoglie del 25 aprile e lo utilizzano per altri fini.
Anzi per il solito scopo: continuare a demonizzarsi, anche su un terreno improprio e evidentemente pretestuoso. E’ così triste, solitario y final questo 25 aprile, che neanche lo spauracchio neo-fascista agitato prima del voto, con contorno di anti-fascismo di maniera, quello che Pier Paolo Pasolini da anti-fascista non sopportava proprio, è riuscito a rinverdire.
Il sistema maggioritario aveva potenziato il 25 aprile: basti pensare alla grande manifestazione di Milano nel ‘94, subito dopo che Forza Italia e An erano andate al governo. Adesso non c’è più neanche il Cavaliere Nero a fare da spartiacque e a riacutizzare le divisioni. E così questa festa laica, ma anche ideologica, ha furoreggiato nella Seconda Repubblica e ora che siamo forse nella Terza sembra davvero arrivata al capolinea. Un po’ perché il ricordo dei «momenti forti» di ogni epoca - come ha spiegato nei suoi studi lo storico Gianni Oliva, ora autore della «Grande storia della Resistenza» (Utet) - dura lo spazio di due generazioni, quella protagonista e quella successiva. E poi va spegnendosi. E un po’, anzi molto e i due fattori sono collegati, ormai di quelli che hanno fatto la Resistenza o dicono di averla fatta ne sono rimasti in vita un numero assai esiguo. Basti pensare che l’Anpi, organizzazione basata sul motto anti-storico «ora e sempre Resistenza», conta 12mila aderenti ma tra questi sono meno di 4mila gli iscritti tra gli 85 e i 92 anni.
Il 25 aprile è debole anche perché è diventato desueto l’anti-fascismo. E a questa doppia debolezza contribuisce il fatto che negli ultimi anni, sempre di più, è stato svelato dagli storici l’inganno così riassumibile: Resistenza come grande guerra di popolo. Come hanno sempre cercato di far credere i comunisti, sapendo che non è vero. E aveva ragione invece, tra i tanti ma con maggiore nettezza liberale dei più, lo storico Rosario Romeo il quale definì la Resistenza «la lotta di pochi dietro cui si sono nascosti i tanti, per nascondere le proprie colpe».
Ed è finito il 25 aprile perché stride, inotre, con una caratteristica odierna. Fu l’incubazione di una classe dirigente, l’inizio della sostituzione di una élite con un’altra e comunque l’anti-fascismo ebbe un ceto professionalmente capace di guidare, il fascismo l’aveva avuto (eccome e spesso di buona qualità, un esempio per tutti: Giovanni Gentile), mentre oggi si fatica a trovare una classe dirigente consapevole di sé e in grado di svolgere il proprio ruolo. Da questo punto di vista, il 25 aprile imbarazza, nell’epoca del “gentismo” e della retorica della politica «dal basso.
Resta da chiedersi a questo punto: come si sostituisce il 25 aprile? Forse facendo avanzare, al posto di fascismo e anti-fascismo, una nuova dicotomia: liberali e anti-liberali. O magari, riempendo lo spazio lasciato libero dalle ideologie con una nuova idea di Stato. Uno Stato pragmatico, decidente, capace di fare da collante a ciò che chiamiamo patria e che riesca a connettere il Nord con il Sud. Applicandosi alla più evidente diseguaglianza tra le tante presenti in Italia: lo squilibrio economico che penalizza il Mezzogiorno. Bisognoso, insieme al resto del Paese, non di cavalcare la Resistenza ma di riattivare la Ricostruzione.
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