Il ritratto/ La giovinezza agiata della mente del massacro

Il ritratto/ La giovinezza agiata della mente del massacro
di Alessandro Orsini
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Sabato 21 Novembre 2015, 15:08 - Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 12:04

Un anno prima della strage di Parigi, la famiglia di Abaaoud fu raggiunta dalla notizia che il figlio era stato ucciso mentre combatteva in Siria, e fu un tripudio. «Stiamo pregando nella speranza che sia morto davvero», disse Yasmina, sua sorella maggiore. Abaaoud aveva 26 anni e, mentre la famiglia festeggiava la sua morte, lui preparava quella degli altri.

Alla fine del 2014 si mise in viaggio per tornare a casa e preparò un video propagandistico per incoraggiare i giovani europei a unirsi all’Isis: «Certo, non è una gioia far scorrere il sangue.

Ma, di tanto in tanto, è un piacere vedere il sangue degli infedeli».

Non passò inosservato e la polizia europea, secondo quello che rivelano fonti riservate, riuscì a intercettare il suo telefono mentre era ad Atene, ma poi perse le sue tracce. La polizia belga sapeva che aveva telefonato al fratello di un noto jihadista che vive in Belgio e, temendo il suo ritorno, non gli diede tregua. A gennaio 2015 fece irruzione in un appartamento in cui si nascondevano tre ragazzi legati ad Abaaoud. Due di loro furono uccisi, tra cui il noto jihadista dell’intercettazione telefonica. È la conferma che i servizi di intelligence lavorano sodo ed è anche la conferma che, ormai, i militanti dell’Isis sono diventati troppi e il duro lavoro non è più sufficiente.

Cercavano proprio Abaaoud che però si mise in fuga e giunse di nuovo in Siria. Alla rivista dell’Isis, “Dabiq”, ha raccontato le sue peripezie, attribuendo ad Allah il merito del mancato arresto: «Ero seguito da molti servizi di intelligence, ma Allah mi ha aiutato».

Abaaoud è un rompicapo sociologico. Non era povero, non era sfruttato, aveva un buon livello d’istruzione e aveva avuto accesso a una prestigiosa scuola cattolica, il Collège Saint-Pierre d’Uccle, in un quartiere esclusivo di Bruxelles. Alcuni professori, che vogliono rimanere anonimi, dicono che si ritirò dagli studi, altri che fu cacciato per cattiva condotta.

Suo padre era proprietario di un negozio di abbigliamento a Malenbeek e Abaaoud, nonostante le sue denunce veementi contro lo sfruttamento in cui versano molti musulmani in Europa, beneficiò di privilegi inimmaginabili per molti di loro. È una storia diversa rispetto a quella dei massacratori della redazione di Charlie Ebdo, i fratelli Kouachi, che avevano avuto un’infanzia dolorosa. Orfani dalla tenerà età e privi di affetti stabili, erano tutt’altro che privilegiati. Lasciata la scuola, Abaaoud intraprese un percorso che i sociologi chiamano processo di radicalizzazione verso il terrorismo. Se finora le differenze con gli “emarginati” Kouachi sono apparse evidenti, la storia successiva è comune e conferma che il percorso che conduce i nostri ragazzi al terrorismo islamico è molto diverso da come molti lo immaginano.

I ragazzi come gli attentatori di Charlie Ebdo e del Bataclan si radicalizzano in piccoli gruppi di amici, privi di gerarchie, convincendosi a vicenda che il mondo occidentale li odia. Si tratta di piccoli involucri protettivi che favoriscono il distacco definitivo dai valori dominanti, rendendo più facile l’acqusizione di una nuova concezione del mondo. Accadde a Cherif Kouachi, l’attentatore di Charlie Ebdo che sognava di diventare un rapper, oppure a Tamerlan Tsarnaev, l’attentatore della maratona di Boston del 15 aprile 2013, che sognava di diventare un pugile famoso.

Erano ragazzi come tutti gli altri. Avevano sogni occidentali. Nessuno di loro fu avvicinato dai capi di al Qaeda, fecero tutto da soli. Si distaccarono dal mondo circostante, quanto meno sotto il profilo psicologico ed esistenziale, e andarono alla ricerca di altre persone con le loro stesse idee per sentirsi più forti e meno soli. Non furono marionette nelle mani altrui, ma imprenditori di se stessi.

La radicalizzazione verso il terrorismo non è un processo che proviene dall’alto. Questo confermano le ricerche accademiche più accreditate. Nelle nostre città, non ci sono reclutatori di al Qaeda che vanno in giro per le strade alla ricerca di giovani di “talento”. È sbagliato immaginare tutte le moschee d’Italia o di Francia come luoghi pericolosi che nascondono banchi di scuola, lavagne e dizionari jihadisti.

Questa rappresentazione islamofobica dei fatti infuoca come un sermone di Bin Laden e rende più efficaci i video propagandistici di Abaaoud. Almeno nelle città delle democrazie occidentali, la strada che conduce tra le braccia di al Baghdadi inizia dal basso, in maniera del tutto spontanea e informale. Nella grande maggioranza dei casi, al Baghdadi non cerca. È cercato. Ecco perché l’Isis è, prima di tutto, un fenomeno culturale.

Alessandro Orsini è direttore del Centro per lo studio del terrorismo dell’Università di “Tor Vergata”. I suoi libri sono stati tradotti dalle maggiori Università americane.