La scarna nota targata fonti M5S parla di «cambio di posizione assunto da Matteo Salvini». E dietro a questa frase c'è tutta la rabbia di Luigi Di Maio per la mossa a sorpresa (ma nell'aria da giorni) dell'alleato: evitare il processo. La rabbia del capo politico dei grillini è tale che per tutta la giornata non vuole parlare con «Matteo». Tocca dunque al premier Conte (da Cipro) chiamare il ministro dell'Interno. I due parlano della Sea Watch, ma soprattutto cercano una via d'uscita.
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Salvini gli dice chiaro e tondo che «auspica» il voto del M5S. Niente scherzi, dunque. C'è in ballo il governo. La situazione è talmente nebulosa che il premier è costretto, appena atterrato a Roma, a riunire intorno a un tavolo i due vice. Occorre trovare, ancora una volta, una via condivisa che tuteli la maggioranza.
L'ipotesi, che manca di essere testata, passa da un sì dei grillini al processo quando ci sarà da votare la pratica in giunta e da un no in Aula, rafforzato da un documento firmato e letto da Conte nel quale si dirà che il blocco della Diciotti, quest'estate, fu una «mossa condivisa». E dunque di tutto l'esecutivo. Sia giallo, sia verde.
Ergo: mandare a processo il ministro dell'Interno sarebbe come sconfessare la linea di Palazzo Chigi e quindi non bisogna dare l'autorizzazione a procedere. Un percorso complicato, figlio del risentimento che agita il M5S in queste ore. Uno stato d'animo che trova il muro della Lega. Massimo Garavaglia, sottosegretario all'Economia, a chi gli fa notare che i ministri 5 Stelle vorrebbero autodenunciarsi risponde lapidario: «Una roba da idioti, pensiamo alle cose serie. Ma come si fa a dire queste cose? Tanto finirà questo cinema e penseremo alla realtà». Dario Galli, viceministro allo Sviluppo Economico del Carroccio e dunque braccio destro di Di Maio al Mise, alla buvette di Palazzo Madama prende quasi per scherzo le minacce dei grillini al sì: «Facciano pure, se ci vogliono portare al 50%, facciano pure. Noi siamo qui, fermi».
LE REAZIONI
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GLI APPUNTAMENTI
Salvini è convinto che alla fine porterà comunque a casa il risultato. Forte del motto, ripetuto anche ieri in tv, «noi litighiamo, ma poi facciamo le cose». Nel dubbio, prima di andare a incontrare Conte e Di Maio a Palazzo Chigi, a tarda notte, il leader della Lega riunisce i deputati e i senatori per una riunione fiume. Ufficialmente è l'occasione per fare il punto sui «successi di governo» messi in cascina. Ufficiosamente sembra a molti una chiamata alle armi. Perché in queste ore il filo della fiducia sembra essersi spezzato. E dunque «meglio prepararsi a qualsiasi scenario», come racconta chi ha partecipato all'appuntamento. Anche il peggiore, quello più catastrofico, qualora il M5S votasse con il Pd il sì all'autorizzazione a procedere. Un messaggio chiaro di sfiducia delle politiche leghiste sull'immigrazione, come fa notare un deputato vicino a Salvini. «E a quel punto ne trarremo le conseguenze». Di Maio prova il rilancio per cercare di tenere, ancora una volta, tutto insieme: i principi fondamentali del MoVimento e il realismo politico.
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