Crisi di governo, Salvini: «Via i ministri». E chiama Berlusconi

Crisi di governo, Salvini: «Via i ministri». E chiama Berlusconi
di Alberto Gentili
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Lunedì 12 Agosto 2019, 08:52 - Ultimo aggiornamento: 14:47


ROMA Matteo Salvini ha innescato l'arma finale per accelerare la crisi. Il capo della Lega ha detto e ripetuto che deve essere discussa «prima di Ferragosto» la mozione di sfiducia contro il premier Giuseppe Conte. Se invece oggi, com'è probabile, la riunione dei capigruppo del Senato farà slittare al 20 agosto la data della resa dei conti, già in giornata Salvini potrebbe ritirare i ministri del Carroccio.
Questa mossa, volta ad accelerare i tempi e a sventare «l'orribile inciucio antidemocratico tra Pd e 5Stelle», aprirebbe di fatto la crisi. Scriverebbe la parola fine sul frontespizio del governo giallo-verde. E renderebbe perfino inutile il dibattito sulla mozione di sfiducia presentata dalla Lega. «Conte, in questo caso, sarebbe costretto a dimettersi senza se e senza ma», dicono nell'entourage del leader leghista. E il Carroccio potrebbe così evitare quel voto di sfiducia che, come dimostrano le contestazioni esplose ieri a Catania e il giorno prima a Soverato, ha fatto perdere un po' di smalto e di popolarità a Salvini.

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Il capo della Lega non si limita a preparare l'artiglieria pesante. Per evitare la saldatura di Forza Italia «con il partito dell'inciucio», in queste ore Salvini ha chiamato Silvio Berlusconi. E in base a ciò che dicono nell'entourage del Cavaliere, «l'accordo elettorale per la rinascita del centrodestra è quasi definito. Verrà siglato dai due nelle prossime ore». Tra oggi e domani.
Che questa sia la strada lo dimostrano le parole del vicepremier leghista: «Conto di vedere presto Berlusconi e Meloni per discutere delle elezioni regionali e l'alleanza che ha vinto deve ritrovarsi in Umbria, Emilia Romagna e poi in Calabria, Marche, Toscana. Ma parleremo anche di altro». Dove altro, secondo la lettura del Cavaliere c'è l'intesa elettorale a livello nazionale.
Tant'è, che il nuovo coordinatore di Forza Italia, Sestino Giacomoni, mette a verbale: «Serve subito un governo forte e con una larga maggioranza parlamentare per abbassare le tasse, creare posti di lavoro veri e riformare la giustizia». E Giorgio Mulé, portavoce dei parlamentari di Forza Italia corre a bocciare «il governo della ribollita in salsa renziana, un'indigesta ricetta che umilia la volontà degli elettori e sazia gli appetiti di un gruppo di disperati guidati da Beppe Grillo, pronti a tutto pur di non mollare le poltrone che dicono di voler tagliare». In più, a riprova che la trattativa sta marciando («ma non siamo a un punto di arrivo, serve di più: un impegno concreto»), oggi nella riunione decisiva dei capigruppo del Senato, la forzista Anna Maria Bernini voterà insieme a Massimiliano Romeo (Lega) e a Luca Ciriani (Fratelli d'Italia). Ma, si diceva, con ogni probabilità prevarrà il fronte del rinvio al 20 agosto del dibattito sulla sfiducia: i renziani, i 5Stelle, Leu, +Europa, il gruppo delle Autonomie hanno la maggioranza: 173 voti contro i 138 dello schieramento pro-elezioni a ottobre guidato dalla Lega.

I SEGNALI AL PREMIER
In queste ore di trame e veleni, Salvini prova anche a mandare segnali a Conte per ottenerne le dimissioni prima della sfiducia. E dunque evitare di accollarsi platealmente la caduta del governo. L'ha fatto sabato con Giancarlo Giorgetti, che si è detto rammaricato perché il premier «se va alla conta in Aula crea una rottura traumatica». E ci ha riprovato nelle ultime ore, cercando di allettare il premier: «Se si dimette senza essere sfiduciato, Conte potrebbe proporsi per un bis e portare lui il Paese al voto in ottobre». Ipotesi invece improbabile: il Quirinale pensa piuttosto a un esecutivo di garanzia elettorale, guidato da una personalità tecnica o terza, non da un possibile candidato alle elezioni.
Nel frattempo, Salvini salda l'asse con il segretario dem Nicola Zingaretti, come lui contrario all'ipotesi di un esecutivo istituzionale: «E' coerente, molto più coerente di Renzi». Lancia la manovra economica che varerebbe se in novembre fosse da solo al governo con la Meloni, tacendo però sulle risorse per finanziarla: «Tasse ridotte al 15% per milioni di lavoratori, pace fiscale con Equitalia, nessun aumento dell'Iva ma riduzione della tasse sulla casa». E, soprattutto, prova a rassicurare il Quirinale e le cancellerie europee che guardano con allarme all'ipotesi di un esecutivo sovranista sospettato di essere anti-euro e di ultradestra: «Non c'è assolutamente all'ordine del giorno alcuna uscita dall'euro. Io un dittatore? Macché, chiedo le elezioni, i dittatori non vogliono le elezioni».

 

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