Rosa Oliva, la prima Prefetta in Italia premiata da Mattarella: «Quote rosa necessarie»

Rosa Oliva, la prima Prefetta in Italia premiata da Mattarella: «Quote rosa necessarie»
di Franca Giansoldati
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Sabato 13 Marzo 2021, 07:34 - Ultimo aggiornamento: 8 Maggio, 17:15

Se nel 1960 fu cancellata quella legge anacronistica risalente al 1919 che ancora continuava ad escludere le donne da tutti gli incarichi pubblici lo si deve proprio a lei. Rosa Oliva, classe 1934, la prima Prefetta italiana. Ieri mattina al Quirinale si è commossa davanti alla massima onorificenza prevista: Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica.


Ha fatto da apripista. Se lo immaginava un riconoscimento del genere?
«Sono commossa, non mi avevano detto nulla, ero solo stata invitata dal Presidente per oggi (ieri mattina, nrd). Alcuni anni fa ero stata nominata Grande Ufficiale dal Presidente Napolitano in occasione dei 50 anni della famosa sentenza della Consulta del 1960. L'altro giorno il Presidente Mattarella nel discorso dell'8 marzo aveva, in un passaggio, fatto il mio nome. Ma nulla poteva portarmi ad immaginare un atto così inaspettato. Ho avuto con lui un lungo scambio di idee e di opinioni che mi è piaciuto moltissimo».
 

Sulla questione femminile?
«Certo. Gli ho detto che il cammino per la parità avanza lentamente. Lui mi ha assicurata che c'è molta attenzione alle donne e che ora ci sono molte professioniste anche al Quirinale. È stato un colloquio importante».
 

Se li ricorda i giorni in cui è iniziato tutto, tanti anni fa?
«Se mi avessero detto che dopo 60 anni sarei stata ancora qui a parlare di parità forse mi sarei preoccupata. Ad ogni buon conto all'epoca, era il 1957, stavo finendo l'università alla Sapienza, e mi ero appassionata al diritto costituzionale e chiesi la tesi al mio professore, Costantino Mortati, un costituente. Pensi che inizialmente chiesi una tesi sui diritti e le donne, ma fu ritenuto un argomento troppo anticipatorio».
 

E poi si è laureata e voleva fare carriera prefettizia?
«Ho fatto vari concorsi, tra cui anche quello che avviava alla carriera prefettizia nonostante nel bando fosse ben precisato che tra i requisiti era prevista l'appartenenza al sesso maschile. Presentai ugualmente la domanda immaginando che la avrebbero respinta, e così è stato. Andai dal professor Mortati per un consiglio. Lui che era anche un avvocato si disse disposto ad avviare l'iter. Se non avessi avuto quella disponibilità forse la cosa si sarebbe fermata lì».
 

E invece ha fatto un pezzo di storia...
«Diciamo che bisogna dire grazie alla nostra Costituzione, alle 21 Madri Costituenti, agli articoli 3 e 51 e al già citato professor Mortati. Erano comunque anni molto importanti ma sicuramente è stato un passaggio che ha anticipato tante consapevolezze. Era il 1960 e solo con il 68 è poi esploso in Italia il movimento femminista. Non che prima non ci fossero movimenti per l'emancipazione ma il tema non era mai stato così evidente, non se ne parlava nei dibattiti, era tutto circoscritto a livelli accademici. Io stessa che studiavo scienze politiche ignoravo quello che era stata la realtà dell'associazionismo femminile come l'Udi e il Cif, entrambi sigle importantissime nella fase costituente. Movimenti che avevano dato forza alle 21 Madri Costituenti in una Assemblea dove erano pochissime su oltre 500 uomini».
 

Quando ha vinto il concorso sarà stata vista come un marziano verde con il naso a trombetta...
«Venivo fotografata sui rotocalchi. Il Prefetto con lo chignon, scrivevano».
 

Prefetto o prefetta?
«Mi sono sempre fatta chiamare Prefetta. Il linguaggio è importante, riesce ad incidere nella rappresentazione della nostra realtà. Ha il suo peso e poi combatte gli stereotipi. Le donne che continuano a farsi chiamare Prefetto non le critico, sia chiaro, ma il linguaggio ci aiuta a comprendere, delineare, scolpire la realtà».
Ha mai sentito il peso della discriminazione su base sessuale?
«Una volta mi chiesero persino di mettermi i baffi. Io facevo parte del Movimento Repubblicano, ero impegnata e avevo anche lanciato lo slogan: donna vota donna. Quando pensarono di chiamarmi a far parte della direzione regionale un funzionario di partito mi disse che ero ammessa ma dovevo mettermi i baffi. Lo disse scherzando ma il messaggio era chiaro: dovevo smettere di fare la femminista e non creare troppi problemi».
 

I soliti condizionamenti...
«Probabilmente se fossi stata più morbida forse avrei avuto anche una carriera politica migliore, chissà. Certamente se oggi una donna vuole fare carriera deve anche far fronte a condizionamenti perché sono sempre gli uomini a decidere, non c'è niente da fare. I meccanismi di cooptazione sono soprattutto maschili. Non vale il merito perché se solo valesse il merito ci dovrebbero essere le quote azzurre».
 

Le piacciono le Quote Rosa?
«Sono fondamentali. È però sbagliato chiamarle così, meglio definirle Norme per le Garanzie di Genere. Senza queste saremmo ancora più indietro di quanto non siamo ora. Ricordo che quando all'inizio se ne parlava e in Parlamento c'erano donne contrarie (dicevano che non volevano essere come dei panda) fondai con alcune amiche una associazione che chiamammo i Panda. Noi eravamo consapevoli di queste disparità. Guai se non ci fossero le quote rosa».
 

E oggi?
«L'ho detto anche al Presidente.

Il rischio sono i passi indietro. Il cammino è lento, anche a livello mondiale. Si calcola che il tempo necessario per eliminare il livello di differenza delle retribuzioni tra maschi e femmine, a parità di funzioni, sia di cento anni. Possibile che ci voglia un secolo per questo? È incredibile».

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