La solitudine di Piersanti Mattarella, abbandonato dalla Dc

La solitudine di Piersanti Mattarella, abbandonato dalla Dc
di Mario Ajello
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Martedì 7 Gennaio 2020, 09:31

Si dice che in ogni famiglia siciliana ci sia un figlio arabo e uno normanno. Piersanti, il maggiore dei figli di Bernardo Mattarella, aveva il piglio - così si diceva di lui - di un guerriero saraceno ed era stato l'erede designato della tradizione politica paterna. Mentre Sergio, l'attuale Capo dello Stato, aveva scelto la carriera universitaria. Poi però quel 6 gennaio del 1980 cambiarono i destini di tutti. Piersanti, governatore siciliano, democristiano del rinnovamento, venne ucciso da Cosa Nostra sotto casa. Quarant'anni fa. In via della Libertà a Palermo.

Mattarella al 40° Anniversario della scomparsa dell'On. Piersanti Mattarella

Un delitto di mafia, dentro la lunga sequela che sconvolse l'Italia da cima a fondo, da destra a sinistra. E non è un caso che ieri per il quarantennale della morte tutti ma proprio tutti si siano stretti intorno al ricordo di Piersanti e alla lezione proveniente da quell'omicidio. Che segnò la fine di un uomo solo, abbandonato anche dal suo partito, la Dc, e in questo - i due erano assai legati politicamente, Piersanti aveva un affetto filiale verso Moro ed era il suo vero referente in Sicilia ma sempre pronto a spiccare il salto nazionale - si può fare il paragone tra i due personaggi e i loro epiloghi.

E ieri alle cerimonie a Palermo c'era naturalmente Sergio Mattarella. La seduta solenne, a Palazzo Reale, dell'Assemblea Regionale, con il governatore Musumeci, il presidente dell'Ars Micciché, il sindaco Orlando. E insieme al Capo dello Stato anche i figli di Piersanti, Maria e Bernardo. In più il ricordo nel luogo in cui fu trucidato l'allora presidente regionale. E l'intitolazione del Giardino Inglese a Piersanti Mattarella, con il fuori programma della visita del Capo dello Stato in questo parco cittadino. A Palermo anche il ministro del Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, commosso: «Piersanti Mattarella ha tenuto alto il nome delle istituzioni».

L'Italia di oggi dovrebbe fare tesoro davvero dell'esperienza di Piersanti. Quella di un impegno anti-mafia, in un contesto difficilissimo quale la Sicilia degli anni, che puntava alla concretezza delle scelte e dei provvedimenti (non a caso Bontate e gli altri boss si lamentarono spesso di lui, prima di passare ai fatti, con diversi esponenti democristiani) e non si baloccava nella vana retorica legalitaria di tipo ideologico. Da politico e da presidente siciliano, della corrente di Moro che in quella regione pesava non più del 10 per cento negli equilibri della Dc al tempo di Ciancimino e di Lima, cercò di mettere ordine negli enti economici che «pesavano come una zavorra» - come ha detto ieri il governatore Musumeci - e in quell'elefantiaca struttura pubblica e assistenzialistica le penetrazioni mafiose, come in tutto il resto del sistema e della società, avevano buon gioco.

Gli innovatori restano soli, molto spesso, e il caso di Piersanti questo è stato. Mentre lo Stato c'era e non c'era, e la macchina repressiva funzionava non a sufficienza, lui spinse per la riforma degli ordinamenti finanziari amministrativi della regione, per la trasparenza nella programmazione e gestione economica, per la chiarezza nelle regole degli appalti e nelle nomine negli enti locali. Anti-mafia non di facciata, ecco. Ed era stato anche quello, Piersanti, dell'apertura della Dc regionale verso sinistra nei confronti del Pci, proprio sul modello della solidarietà nazionale di Moro.

FALCONE E SCIASCIA
La risposta della mafia, in quel 6 gennaio dell'80, sono state le raffiche di mitra che lo hanno ucciso dentro la sua auto. Il giudice Falcone, occupandosi del caso, si era convinto - ma la corte giudicante non gli ha dato ragione - che non solo la mafia ci fosse ma anche i terroristi neri avevano partecipato come esecutori materiali all'omicidio (a proposito, ieri Valerio Fioravanti ha detto: «Io non c'entro e non stavo a Palermo»). E pure Leonardo Sciascia, all'epoca deputato dei Radicali, disse: «O è mafia, o è terrorismo. O mafia camuffata da terrorismo o terrorismo che, inevitabilmente o confortevolmente, ci si ostina a vedere come mafia». Di fatto, condanne all'ergastolo per i mandanti: Riina, Greco, Provenzano, Calò e gli altri. E ora è un'altra Italia, per fortuna.

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