Previdenza, ora nel mirino c'è la rivalutazione degli assegni

Previdenza, ora nel mirino c'è la rivalutazione degli assegni
di Luca Cifoni
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Lunedì 15 Ottobre 2018, 07:15 - Ultimo aggiornamento: 07:23
Anche il governo giallo-verde, come quelli che lo hanno preceduto, guarda alla rivalutazione delle pensioni per ottenere risparmi in tempi rapidi dal capitolo previdenza. Il miliardo a cui ha fatto riferimento Luigi Di Maio comprende anche questa voce, visto che dalla sola rideterminazione degli assegni di importo superiore a 4.500 euro netti potranno arrivare al massimo 150 milioni, come ha avvertito pochi giorni fa Tito Boeri. Per di più, ha precisato il presidente dell'Inps, questo risultato finanziario potrà essere conseguito solo applicando il taglio al reddito pensionistico complessivo degli interessati e non ai singoli trattamenti, visto che alcuni pensionati ne percepiscono più di uno: su questo punto la legge non è chiara.

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LA SMENTITA
Di certo ieri da fonti pentastellate è venuta una decisa smentita all'ipotesi di un abbassamento dal 4.500 a 3.500 euro netti della soglia di applicazione del taglio; in realtà il provvedimento finora reso noto parla di un limite fissato a 90 mila euro lordi. Il testo era stato presentato alla Camera dei Deputati nel mese di agosto. Ora Luigi Di Maio vorrebbe travasarlo nel decreto fiscale che oggi sarà esaminato dal Consiglio dei ministri, anche se questa scelta renderebbe il provvedimento d'urgenza più eterogeneo e quindi a rischio di obiezioni anche da parte dal Quirinale. In ogni caso nell'ambito della manovra l'esecutivo metterà mano al meccanismo delle rivalutazioni sia per le pensioni più alte sia per quelle di importo medio, salvaguardando del tutto solo quelle meno elevate.

LA SCADENZA
Il punto di partenza dell'intervento è la scadenza del meccanismo deciso a suo tempo dal governo Letta e poi prorogato per altri due anni, che prevedeva una riduzione - pur se graduale in base al reddito - dell'adeguamento all'inflazione. In assenza di novità legislative dal 2019 si tornerebbe alla situazione normale definita da una legge del 2000, in cui la cosiddetta perequazione è quasi integrale: viene infatti applicata al 100 per cento sulle pensioni fino a tre volte il minimo Inps mentre la quota che supera questa soglia è rivalutata al 90 per cento e quella al di sopra delle cinque volte il minimo al 75. In ogni caso però la decurtazione riguarda solo gli scaglioni superiori dell'assegno, mentre con la norma in vigore finora (e ancor più con quella molto drastica del governo Monti, poi dichiarata incostituzionale) il taglio operava sull'intera somma. Il ritorno all'assetto del 2000 era stato anche oggetto di un impegno da parte dei governi Renzi e Gentiloni con i sindacati.
Invece è molto probabile che le carte vengano ancora una volta rimescolate. Lo stesso Luigi Di Maio ne ha parlato come un «raffreddamento» della rivalutazione. Sono due le strade che l'esecutivo sta percorrendo. Da una parte c'è un intervento specifico sulle pensioni considerate alte, per le quali il mancato recupero dell'inflazione potrebbe diventare strutturale: la norma dovrebbe però essere congegnata in modo da evitare i rilievi della Corte costituzionale. Dall'altra sarebbe previsto un meccanismo di penalizzazione, pur se blanda, degli assegni di importo medio.

L'IMPIANTO
Resta poi l'impianto del provvedimento che va a ridurre i trattamenti sopra i 90 mila euro lordi: non si tratta di un ricalcolo sulla base dei contributi effettivamente versati dai singoli, ma di un taglio (di circa il 2 per cento l'anno) proporzionale al numero di anni di anticipo dell'uscita dal lavoro rispetto a un'età convenzionale parametrata all'attuale requisito per la vecchiaia (67 anni dal 2019) ma via via più bassa negli anni passati sulla base degli andamenti demografici. Questo schema, oltre a penalizzare coloro che comunque hanno versato contributi per un periodo di tempo molto lungo, risulta in particolare punitivo per i pensionati che hanno lasciato l'attività non per propria scelta ma per una disposizione di legge. È il caso ad esempio delle donne, per le quali fino al 2012 l'età della vecchiaia era fissata a 60 anni (e ancora prima a 55) e degli appartenenti alle Forze armate o a quelle di polizia. Per tutte queste situazioni dovrebbe essere prevista una specifica deroga. Resterebbe invece la riduzione dell'assegno ad esempio per i manager che sono andati in pensione in forza di accordi aziendali o individuali.
 
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