Equilibri impossibili/ Così tramonta il format di lotta e di governo

Equilibri impossibili/ Così tramonta il format di lotta e di governo
di Mario Ajello
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Lunedì 22 Ottobre 2018, 06:30 - Ultimo aggiornamento: 14:30
Si sta spezzando l’ossimoro: quello del partito di lotta e di governo. È un format che si ripete da decenni, che non ha funzionato mai, che nasce a sinistra - nel Pci degli anni ‘70 nella sua marcia di avvicinamento verso il potere ma senza rinunciare alla retorica e dalla comodità da opposizione - e che via via sfilacciandosi e logorandosi è arrivato adesso al suo epilogo.

La scarsa partecipazione alla festa 5 Stelle, insieme alla stanchezza e alla fine della spinta propulsiva che quella piazza ha messo in scena, possono essere un indizio di questo passaggio d’epoca. E in questo senso perfino Grillo, in mezzo ai suoi attacchi forsennati, sembra sentire a modo suo la necessità di qualche trasformazione governista - in tandem con Salvini che non pareva proprio il suo tipo - per M5S. Ossia mostra, e Conte e Di Maio più di lui, di accorgersi dei limiti e delle impossibilità di un partito fondamentalista del Vaffa alle prese con la pratica della risoluzione dei problemi che implica di dire più sì e meno no.

L’ossimoro di colpo, ma finalmente, si presenta come un ferro vecchio nelle circostanze attuali che richiedono o il governo o la lotta e non la riproposizione stantia, come è stato finora nei giallo-verdi, di una ricetta continuamente sperimentata con insuccesso.

Il mix lotta-governo del Pci venne affossato dal terrorismo delle Brigate rosse. Quando poi, nel ‘94, la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto stava per andare al potere, ma con retorica iper-sinistrese inadatta al compito, Berlusconi le taglia la strada.

Quando lo schema “dentro” ma anche “fuori” viene inflitto da Rifondazione comunista e da buona parte del suo partito di riferimento al premier Prodi, si sono visti i risultati (e anche scene tragicomiche di ministri in piazza contro l’esecutivo di cui facevano parte). Renzi invece al governo è andato, ma una volta lì, nell’illusione di poter recuperare voti di sinistra finiti al grillismo o all’astensionismo, ha usato a sua volta l’ossimoro, praticando un populismo dall’alto che non ha giovato né a lui né al Pd. 

Basterebbero questi rapidi esempi per spingere M5S e Lega di fuggire dalla trappola. Adesso - mentre il gioco si fa duro, risultati veri e netti vanno portati a casa e s’impone una linearità e una serietà che hanno fatto troppo difetto - qualcosa dovrebbe cambiare. Anche la baraonda sul condono fiscale, un tema topico, ha dimostrato per i 5 stelle che o si è capaci di accettare un compromesso su una questione scomoda e lo si rivendica con coraggio, senza tornare partito di lotta solo per vellicare l’ideologia della propria gente e sottomettervisi, oppure l’effetto è quello della fiction e del gioco «manine» e «manone». E gli elettori del movimento - come si evince anche dai sondaggi - si accorgono della finzione. 

L’ossimoro da abolire è quello di cui è impregnata la manovra economica, in cui lotta e governo convivono, con netta prevalenza della prima sul secondo. Non c’è crescita nella manovra perché la sua morale è quella di prendere voti presso l’elettorato di riferimento, sia dei gialli sia dei verdi, invece di allargare lo sguardo oltre i propri interessi e steccati cercando di creare consenso anche dove non ce l’hanno. 

Questo l’atteggiamento che distingue i partiti di governo e i veri statisti, che si fanno responsabili degli interessi generali e della crescita per tutti, dai partiti di lotta e di governo che pensano anzitutto a tenersi stretto il rispettivo zoccolo duro. Prediligendo il particolarismo al patriottismo. 

Il balletto sulle infrastrutture è assai rappresentativo di questa impossibilità, cocciutamente perseguita, di essere di lotta e di governo. Gli oppositori di Salazar, in Portogallo, dicevano: gubernar no es asfaltar. Si sbagliavano: governare è anche asfaltare. Più ponti, più autostrade, più valichi, più tunnel, come dice Salvini, ma lo stesso Salvini proprio perché partecipa all’esecutivo dell’ossimoro non trova il coraggio di far passare queste sue istanze presso gli alleati. E la paralisi su questo capitolo importante della crescita è il rischio grave che stiamo correndo. 
Non è liberale la coesistenza dell’opposizione nel governo - derivante anche dal fatto che oggi l’opposizione vera fuori dal governo non c’è - perché annichilisce l’idea di società aperta, fatta di sfide a tutto campo e non di calcoli di bottega. E profuma di rattrappimento, che è il contrario della libertà di movimento per far crescere meglio se stessi e, dal punto di vista non solo economico ma anche politico-culturale, il resto del Paese. 

Mario Vargas Llosa, premio Nobel, liberale doc, nella sua autobiografia appena pubblicata in Spagna - «La llama de la tribù» - scrive che «brillare, morire, scontrarsi e cambiare con la vivacità degli eroi dei romanzi d’avventura produce buona storia». Restare immobilizzati nelle proprie presunte certezze produce la solita cronaca assai andante. E alla fine - chissà se davvero i grillini lo stanno capendo - non conviene più. 
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