Governo, crisi pilotata: no di Conte. E Renzi: allora lasciamo. Lo stallo allarma il Quirinale

Governo, crisi pilotata: no di Conte. E Renzi: allora lasciamo. Lo stallo allarma il Quirinale
di Alberto Gentili
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Mercoledì 6 Gennaio 2021, 01:14

«Conte deve dimettersi. Se non lo farà, ci penseranno Bellanova e Bonetti a lasciare aprendo la crisi». La pistola di Matteo Renzi è sul tavolo. Giuseppe Conte, in piena pandemia e con il governo ormai agonizzante, però prende tempo per evitare lo show-down e l’apertura formale della crisi.

Tant’è, che il premier non ha ancora convocato il Consiglio dei ministri chiamato a varare la nuova versione del Recovery Plan che oggi Roberto Gualtieri gli consegnerà. E in cui, secondo il copione renziano, le due ministre annunceranno l’addio: doveva essere celebrato domani, se ne sono perse le tracce. E’ stallo, insomma. Una situazione di «incertezza» e di paralisi che «allarma e preoccupa» il capo dello Stato, Sergio Mattarella, che a fine anno ha invocato il «tempo dei costruttori», avvertendo che «incertezze e perdite di tempo» nell’attuazione del «piano di rinascita del Paese» non sarebbero state tollerabili.

La tattica del muro di gomma scelta da Conte indispettisce Renzi costretto, dall’attendismo del premier, a rinviare il colpo di grazia.

Allo stesso tempo il leader di Italia Viva, che continua a gridare al mondo di non «volere alcuna poltrona», usando una metafora tennistica si dice convinto di aver vinto il primo set, avendo inchiodato il premier «con appena il 2%». E ora, aspetta l’inizio del secondo set: «Sta a Conte muovere e decidere se fare il Conte Ter, dopo le dimissioni, oppure se tentare la prova di forza in Senato», ha confidato ai suoi, «da quello che so sta disperatamente cercando voti a palazzo Madama per fare a meno di noi. Auguri...». Un sospetto che trova conferme nelle parole di un alto dirigente del Pd: «Per noi la prima scelta è cercare di capire cosa davvero vuole Renzi e provare a raggiungere un accordo con lui. Se non sarà possibile, si va in Senato a contare i voti. Se non si troveranno pazienza, vorrà dire che si andrà a elezioni». Peccato che Mattarella abbia già sconsigliato maggioranze raccogliticce.

L’accordo di cui parla il dirigente dem è quello sul Conte-ter: un nuovo patto di governo blindato, nuova squadra di ministri, il premier che sale al Quirinale per dimettersi e ricevere il reincarico, infine nuova fiducia. La classica crisi pilotata da Prima Repubblica. «Ci sono le condizioni, vediamo se prevale la razionalità», dice il vicesegretario del Pd, Andrea Orlando. Ma Conte, pur disposto a cedere praticamente su tutto (dal menù del Recovery Plan alla fondazione sulla cybersecurity, dalla delega ai Servizi fino a dire sì a un corposo rimpasto), non vuole esplorare questa strada, pur sapendo di rischiare una crisi al buio.

Le ragioni le ha spiegate a diversi interlocutori, a cominciare da Dario Franceschini e dal consigliere dem Goffredo Bettini. Conte non vuole dimettersi, anche se con la promessa di un reincarico immediato, perché teme un agguato di Renzi: «E’ imprevedibile, chi mi dice che una volta dimesso quello mi darà la fiducia? Se si apre la crisi non ne esco vivo». E perché sostiene che i 5Stelle, ormai divisi per bande, non reggerebbero.

C’è anche dell’altro a frenare Conte sulla strada del suo terzo governo. Il premier sa bene che le condizioni poste da Renzi, in gran parte condivise dal Pd, porterebbero a un suo forte ridimensionamento. Dovrebbe accettare un vicepremier targato Pd (Iv fa il nome di Orlando) perdendo la sua terzierà entrando ufficialmente in quota 5Stelle. E dovrebbe subire un radicale cambiamento della squadra di ministri che appena una settimana fa ha definito «la migliore del mondo», con il probabile passaggio di Lorenzo Guerini al Viminale (la Difesa potrebbe andare a un renziano: Maria Elena Boschi o Ettore Rosato), il siluramento di Nunzia Catalfo (Lavoro), di Paola Pisano (Innovazione). C’è poi chi mette in discussione Paola De Micheli (Trasporti e Infrastrutture) nonostante i risultati con il Tpl anti-Covid, il cui posto potrebbero essere preso da Graziano Delrio (Pd) o da Stefano Patuanelli (M5S) che lascerebbe lo Sviluppo economico a un dem. 

Troppo, insomma. Così Conte prende tempo, pur sapendo che anche il rimpasto cui è disponibile sarebbe impossibile senza le dimissioni: «Come fai a costringere i ministri a lasciare se non apri la crisi?», gli è stato chiesto. Nessuna risposta.

L’attendismo contiano indispettisce il Pd che, al pari di Italia Viva, guarda di buon occhio a un ridimensionamento del premier e a un «potenziamento della squadra di governo». E spinge Renzi a rilanciare altre ipotesi. Quelle da lui più amate perché, «un Conte-ter con il Mes, la delega dei Servizi transitata in altre mani, un nuovo ministro della Giustizia» per il leader di Iv sarebbe un «risultato politicamente enorme». Ma la vittoria, quella vera, di fronte all’opinione pubblica sarebbe soltanto portare a casa lo scalpo di Conte. Così, eccolo evocare di nuovo un governo a guida dem: «Zingaretti però non ne vuole sapere...».

E, soprattutto, ecco Renzi «sognare» un esecutivo con Mario Draghi. Senza scartare (anzi) un governo tecnico guidato, ad esempio, da Marta Cartabia. «E non si dica che sarebbe un esecutivo elettorale, per poi a votare a giugno», avverte, «se parte, va avanti fino al 2023 perché i grillini se ne innamorerebbero subito anche senza Conte: due anni di stipendio da parlamentare fanno 360mila euro. Un bell’appartamento...». Tanto più che ora anche da destra si alzano appelli per un governo di «salute pubblica». Sospiro di Loredana De Petris, Leu: «In piena pandemia e con una grave crisi economica questo teatrino è davvero incomprensibile».
 

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