Pd «un partito da rifondare», Enrico Letta già sulla graticola. E al Nazareno parte il processo

Fallisce il sogno del leader di sorpassare FdI. La sinistra: «Sbagliato rompere con M5S»

Enrico Letta
di Andrea Bulleri
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Lunedì 26 Settembre 2022, 00:34 - Ultimo aggiornamento: 12:36

Invertire i pronostici. Tentare la rimonta. Se non puntando a Palazzo Chigi (impresa che a microfoni spenti nessuno, al Nazareno, riteneva davvero a portata di mano), almeno mettendo nel mirino il gradino più alto del podio. Per guadagnarsi quei galloni di primo partito che fin dall’inizio della campagna elettorale Enrico Letta aveva dichiarato di volersi appuntare al petto. Arrivare primi almeno come lista singola: era questo il traguardo che ai nastri di partenza il Pd si era prefisso di tagliare. Ma se le tendenze dei primi exit poll fossero confermate, la sfida, per i dem, si chiuderebbe con due parole secche: game over. 


Perché la forchetta indicata da Opinio-Rai è ben più bassa delle aspettative: 17-21%.

Numeri che mandano direttamente in soffitta l’ipotesi del “sorpasso” su Fratelli d’Italia. Una prospettiva che gli ultimi sondaggi della vigilia avevano reso sempre più evanescente. Con i dem apparentemente incapaci di scollarsi da quota 20% a cui le rilevazioni coperte dagli ultimi 15 giorni di silenzio li relegavano. 


SOGLIA PSICOLOGICA
Una soglia psicologica decisiva, per il Pd. Uno spartiacque. Sotto il quale, la sconfitta diventa un boccone troppo amaro da mandar giù. Uno schiaffo, per Enrico Letta. Chiamato un anno e mezzo fa a rimettere insieme i cocci di un partito uscito con le ossa rotte dal voto delle Politiche 2018, quando il risultato – il più basso mai toccato nella storia dem, arrivato dopo cinque anni al governo – fu del 18,7 per cento. Se il dato finale di oggi finisse realmente per atterrare sotto quota 20, come pare verosimile a leggere gli exit poll curati da Antonio Noto, significherebbe che la scommessa di Letta (far uscire il Pd dalle “Ztl” delle grandi città e dalle tradizionali roccaforti rosse) non può dirsi riuscita. Con un’unica conseguenza, si ragionava a mezza voce al Nazareno alla vigilia delle urne: il segretario, presto o tardi, dovrebbe trarne le conclusioni. Se non nei minuti immediatamente successivi al voto, quasi certamente nei giorni a venire. Forse già oggi, non appena il polverone della corsa elettorale si sarà depositato. E i numeri definitivi si mostreranno in tutta la loro oggettiva freddezza. 


Del resto, che Letta rimanga alla guida del Nazareno anche nel caso di un risultato molto al di sotto delle aspettative, come sarebbe il 18-19%, è un’ipotesi che nessuno tra i dem prende realmente in considerazione. «Sotto al 20 siamo in difficoltà. Sopra – ragionavano fonti dem a urne appena chiuse – si può ancora ragionare». 
E «ragionare», in casa Pd, significa seguire uno spartito che, mentre i primi exit poll scorrono sul maxischermo allestito al terzo piano del quartier generale e i volti si incupiscono, suona più o meno così: «Davvero vogliamo bruciare il quarto segretario in quattro anni?», si chiedono nell’inner circle lettiano. «Davvero è il caso di ricominciare ad azzannarci tra di noi, mentre il Paese sta per risvegliarsi con un governo mai così sbilanciato a destra?». 


La risposta, almeno a sentire i commenti della minoranza ex renziana, sembra scontata. «Altro che congresso. Qui bisogna rifondare il partito», si lasciava andare a tarda sera un esponente di peso dell’area moderata. 
IL FRONTE DEL CAMPO LARGO
Ma sulla poltrona di Letta, da oggi, rischia di concentrarsi il fuoco incrociato. Animato, oltre che dalla minoranza di Base riformista, anche da quell’area che non ha mai fatto mistero di ritenere un errore lo stop al dialogo coi Cinquestelle. Una voce sempre meno flebile, man mano che si entrava nel vivo della campagna elettorale. I cui commenti a caldo suonano più o meno così: «Se ci fossimo presentati in coalizione con Conte, saremmo finiti pressoché alla pari col centrodestra. Rompere è stato un errore». 


Si scaldano i motori, al Nazareno. Il congresso, comunque vada, è già in calendario per la primavera 2023. Sempre che non si decida di anticiparlo. In pista, oltre al governatore emiliano Stefano Bonaccini, potrebbe esserci la sua vice. Elly Schlein, volto giovane e identitario dem. Indicata dal britannico Guardian come «l’astro nascente della sinistra italiana», dallo statunitense Time definita la «Alexandria Ocasio-Cortez» tricolore. Convinta, guardacaso, che con il Movimento si debba tornare a discutere, a partire da oggi. Prima però c’è da incassare la batosta. Sempre che in corner non si riesca a schivarla.

L’unica via d’uscita «onorevole», per Letta, rimane quella di scavallare “quota 20”. Al Nazareno, suggeriscono voci di corridoio, ci si accontenterebbe di un 21%. Un esito non esaltante, riconoscono nel Pd. Ma che potrebbe lasciare il segretario in sella. Consacrando Letta come leader dell’opposizione a Giorgia Meloni. Con la speranza, di qui a qualche mese, di aver iniziato a risalire la china. 
 

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