Passa per un voto la riforma del catasto in commissione Finanze della Camera. Finisce 22 a 23 dopo un’estenuante trattativa che ha coinvolto di nuovo palazzo Chigi nel tentativo di evitare lo strappo nella maggioranza. Alla fine però la frattura c’è stata e il centrodestra si è ricompattato sull’emendamento che di fatto avrebbe soppresso l’articolo 6, firmato dai capigruppo Molinari (Lega), Barelli (FI) e Lollobrigida (FdI), che il voto ha poi bocciato.
Oggetto del contendere quella che Luigi Marattin, presidente della commissione Finanze della Camera, definisce «ricognizione statistica» sulla situazione immobiliare del Paese che dovrebbe portare all’emersione anche delle costruzioni fantasma. «Nessuna nuova tassa», si affrettano a ripetere da Palazzo Chigi, ma una ricognizione che durerà sino al 2026. Una riforma del catasto, per cercare di adeguare in futuro anche i valori immobiliari che spesso sono sperequati tra centro e periferie, a danno di queste ultime, venne tentata l’ultima volta nel 2015 dal governo di Matteo Renzi, ma poi naufragò. Stavolta però per Mario Draghi non si può rinviare perché l’intera delega fiscale, nella quale è contenuta la riforma del catasto, compone il puzzle delle riforme contenute nel Pnrr.
L’allarme per la tenuta della maggioranza era stato lanciato giorni fa dalla sottosegretaria al Mef Cecilia Guerra che aveva definito la riforma come un passaggio dirimente per la tenuta del governo.
LE TENSIONI
«È incomprensibile che il testo redatto a Palazzo Chigi» «non sia stato presentato in commissione dallo stesso governo che lo aveva preparato», sostiene Barelli dopo aver lasciato palazzo Chigi. La mediazione non passa, ma stavolta l’esecutivo - a differenza di quanto accaduto sul tetto al contante - ha fatto bene i conti e sa, malgrado un paio di sostituzioni di deputati che avvengono in FI, di avere i numeri. La sfida alla fine dà ragione al presidente del Consiglio che tiene il punto rispetto a quanto deciso ad ottobre in consiglio dei ministri dove la riforma venne approvata all’unanimità seppur con l’astensione della Lega. Il «voto di Forza Italia è incomprensibile», sostiene senza mezzi termini Renato Brunetta, ministro di FI molto vicino al premier, ricordando così quanto avvenuto in consiglio dei ministri. In effetti ad ottobre, quando Draghi spiegò in conferenza stampa che non c’erano aumenti di tasse ma che si trattava solo di una ricognizione da completare nel 2026, il coordinatore di FI Antonio Tajani sottoscrisse le parole del premier aggiungendo semplicemente un «vigileremo».
L’incidente, anche se annunciato, rischia comunque di creare una frattura nella maggioranza che non agevola l’iter della delega fiscale e i rapporti tra i partiti. Al Senato, in commissione Lavori Pubblici, è stallo sulla legge delega sugli appalti. Dopo quanto accaduto ieri, la Lega fa sapere di ritenersi con «le mani libere» sul resto del provvedimento e Matteo Salvini difende l’operato dei suoi chiedendo a Draghi un nuovo incontro perché «in un momento così drammatico per tante famiglie, alle prese con la crisi Covid e il caro energia, è quanto mai necessario evitare forzature e il rischio di nuove stangate».
Alla fine Lega, Forza Italia e Coraggio Italia votano compatti e con loro due deputati di “Alternativa C’è”. Arrivano in tutto a 22, e sono battuti dai Leu, Pd, M5S e Iv (Marattin, presidente, non vota) cui si uniscono Manfred Schullian, Nunzio Angiola di Azione e, appunto, Alessandro Colucci di Nci. Immediatamente il Pd, con Francesco Boccia, accusa la Lega di essere «irresponsabili» anche perché «non sarà aumentato il gettito di un solo centesimo perché la riforma è a invarianza di gettito». «Nervi saldi» e «senso di responsabilità» lo chiede Giuseppe Conte, leader del M5S.