L’autonomia del Nord/ Una riforma spacca-Italia che espropria i diritti del Sud

di Gianfranco Viesti
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Lunedì 17 Dicembre 2018, 00:23 - Ultimo aggiornamento: 00:32
Una delle eredità più tossiche della grande crisi, da cui il nostro paese stenta ancora molto ad uscire, è il consolidarsi di rancori ed egoismi. Fasce della società italiana e delle sue classi dirigenti sono convinte che le colpe delle difficoltà siano degli “altri”, e sono determinate a curare esclusivamente i “propri” interessi. Dalla crisi è uscito molto indebolito il senso di unità nazionale, per quanto si parli di sovranismo; e l’interesse per i beni comuni nazionali. Si è indebolita l’idea che l’Italia possa uscire dalla crisi tutta insieme, come un grande paese; mobilitando, anche con opportune politiche pubbliche, tutte le risorse di cui dispone; rafforzando tutte le sue città e tutti i suoi territori; stimolando il contributo di tutti i suoi cittadini. Assai forte è invece la voce, e l’azione, di quanti lottano perché siano prioritarie le proprie esigenze, anche a danno degli altri.
Una delle proposte politiche più pericolose in questo senso è la “secessione dei ricchi del nord”. Il riferimento è alle richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna di acquisire competenze e risorse molto maggiori, spostandole dal livello statale a quello regionale. Di maggiore autonomia regionale si può naturalmente discutere; è un processo che presenta pro e contro, a seconda delle materie di cui si discute.
E a seconda delle conseguenze che il loro trasferimento ad alcune regioni può comportare per i grandi servizi pubblici e il benessere di tutti i cittadini. 

E’ proprio da questi punti di vista che la proposta attualmente in discussione si configura come una secessione del ricco Nord. In primo luogo perché stabilisce che i cittadini delle regioni più ricche hanno diritto a maggiori servizi pubblici rispetto agli altri (come conseguenza di un nuovo meccanismo di finanziamento, che quantificherebbe le risorse necessarie per i servizi trasferiti anche in relazione al gettito fiscale regionale). Il che, per date risorse pubbliche complessive, significa ridurre le disponibilità per gli altri. Poi, perché non è relativa a specifici ambiti, ma riguarda tutti le 23 materie per cui il processo è teoricamente possibile. Si spazia così dalla sanità (eliminando le basi stesse del servizio sanitario nazionale) alla scuola, su cui è molto incisiva: Lombardia e Veneto chiedono infatti di passare ad una scuola regionalizzata, in cui le Regioni assumono i docenti e ne stabiliscono salari e condizioni contrattuali e intervengono sulla programmazione. Si chiude la scuola pubblica nazionale. Si reclama un vero e proprio potere d’interdizione sulle grandi infrastrutture (su cui, curiosamente, non si è sentita neanche una voce dei sostenitori delle “grandi opere”); vaste competenze esclusive, dai beni culturali alla previdenza complementare. Fino alle proposte più eccentriche, come quella di regionalizzare l’Istat: come se la statistica veneta fosse migliore di quella nazionale. La secessione dei ricchi non cade dal cielo: è la realizzazione del disegno a lungo e coerentemente sostenuto dalla Lega, per cui gli italiani dei propri territori di elezione vengono prima degli altri: con più risorse e più poteri locali. 
Tutto ciò comporta una riconfigurazione profondissima del funzionamento del nostro paese e dei diritti dei suoi cittadini. Un processo che fissa regole ad hoc per veneti e lombardi, prima di definire principi e criteri che valgono per tutti gli italiani, come i Livelli Essenziali delle Prestazioni previsti dalla Costituzione. I dossier sono stati istruiti dai Presidenti leghisti di Veneto e Lombardia e dalla ministra leghista veneta agli Affari Regionali. Se approvato in Consiglio dei Ministri, l’intero pacchetto passerebbe in Parlamento per un mero voto di ratifica: senza poter entrare nel merito, discutere, emendare. Fatto questo, tutto il potere attuativo (ad esempio di stabilire quanto di più merita, come servizio scuola, lo studente della Lombardia rispetto a quello del Lazio o della Campania) passerebbe a commissioni tecniche. E, stabilito il percorso, altre regioni potrebbero accodarsi. 

Di tutto ciò, dei danni profondi che potrebbe portare all’intero paese, ed ai cittadini che vivono nelle regioni meno forti, non si discute affatto, con la calma e la profondità necessaria. Si è rafforzato invece, negli ultimi giorni, il grido del Nord che chiede con urgenza l’autonomia. Senza mai accettare la discussione, rispondere alle obiezioni, entrare nel merito: l’unico mantra è che bisogna lasciare soldi e poteri ai territori più forti, perché possano correre da soli. E che gli altri si arrangino, e si diano finalmente da fare. Magari destinando ai meridionali un po’ di elemosina di reddito di cittadinanza, proprio mentre si riducono quei diritti, in primis all’istruzione e alla salute, che la rendono effettiva. Si alzano i toni delle contrapposizioni territoriali. 
Sarebbe bene fermarsi, prima di produrre irreparabili strappi al paese. Informare bene gli italiani e chiedere loro che ne pensano; anche a quel 62% di lombardi che non ha votato al referendum. Chiedere al Parlamento di istruire le materie, e discutere tanto, nel merito, prima di deliberare a scatola chiusa. Nell’interesse di tutti: anche di quei territori che si illudono che, andando da soli nell’economia globale di oggi non si ridurrebbero a piccoli satelliti della Germania. L’unità sostanziale del paese, la sua capacità di crescere grazie a tutti i suoi territori, e di rafforzare la sua coesione economico-sociale sono questioni serie, serissime. 
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