Tosca: «Le scale del Bagaglino e i miei giovani studenti, i figli che non ho avuto»

Parla la cantante romana: «Il Festival? Per me vince Ultimo, anche se preferirei che arrivasse prima Levante. Il successo più grande? La “mia” Officina Pasolini»

Tosca: «Le scale del Bagaglino e i miei giovani studenti, i figli che non ho avuto»
di Andrea Scarpa
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Domenica 11 Dicembre 2022, 00:16 - Ultimo aggiornamento: 12 Dicembre, 15:14

Altri mondi, tanta gente sul palco, cuore in mano. Dal 26 dicembre al 1° gennaio Tosca sarà all’Auditorium di Roma con il suo personalissimo circo musicale che ruota intorno al progetto Morabeza, disco e tour che celebra l’accoglienza e l’intreccio fra persone e atmosfere di ogni tipo. Con lei, a sorpresa, ospiti come Serena Rossi, Drusilla Foer, Niccolò Fabi, Serena Brancale, le napoletane Ebbanesis e via cantando. Insomma, a 55 anni, la passione e la voglia di fare sono quelle di sempre.

Trent’anni fa, nel 1992, cantava spesso al Classico di Roma: voce splendida per pezzi tremendi. Com’è arrivata fin qui? 
«Avevo 25 anni e quei brani erano frutto di tanti compromessi. Avevo iniziato nel 1990, non sapevo niente della discografia, e il mio produttore era Giancarlo Lucariello, quello dei Pooh (e di Miguel Bosè, Gianni Togni, Alice, Toquinho etc, ndr). Bravo ma troppo pop per me. La canzone è come un abito e io mi sentivo vestita male. Dopo due dischi finì tutto: non rispettai il contratto e Lucariello mi fece causa. Risultato: discograficamente non potevo fare più niente».

E quindi?
«Ero disperata. Era il 1994, la grande Gabriella Ferri - che lavorava al Bagaglino - non stava bene e così il maestro Piero Pintucci, autore delle musiche (fra le tante ha scritto anche Il carrozzone per Renato Zero, ndr), mi chiese se volevo sostituirla per fare Frou Frou del Tabarin. Accettai subito, anche se non c’era niente di più distante da me: dovevo scendere le scale con le cosce di fuori e una piuma bianca in fronte. Che vergogna... Anche se alla fine fu una bella esperienza: Ninni Pingitore era simpaticissimo, come Martufello, Manlio Dovì e tutti gli altri.

Poi alla fine del 1995 mi chiamò Ron per andare a Sanremo, ma c’era un problema».

Quale problema?
«Senza il permesso di Pingitore non sarei andata: avevo firmato un contratto e non l’avrei mai rotto. Lui fu impeccabile: “Certo che puoi andare, però ci lasci la tua voce registrata così quando le due stangone scendono dalle scale al posto tuo fingono di cantare come te”. Così andai al Festival».

Però nonostante la vittoria le cose non andarono benissimo: perché?
«Diventai popolare ma non avevo una storia, sapevo solo che non sapevo fare il pop e non l’avrei più fatto. Volevo costruire qualcosa. Feci Sanremo l’anno dopo, poi rinunciai a fare altri due dischi e mollai tutto. Volevo che la mia musica mi rappresentasse, per me era anche un atto politico».

Addirittura? E questa consapevolezza come l’ha maturata?
«Ricordandomi della libertà di due maestri come Renzo Arbore (Tosca nel 1985 e e 1987 cantò per lui a Indietro tutta e Doc, ndr) e Gabriella Ferri. Per essere così bisogna rinunciare a qualcosa, però, e io ho iniziato così».

L’ha aiutata molto il suo compagno Massimo Venturiello, attore e regista, con il quale ha cominciato a fare teatro?
«Sì, certo. Per dodici anni abbiamo fatto di tutto - da Gastone di Petrolini alla Strada di Fellini - con la nostra compagnia Officina teatrale, che adesso gestisce lui perché ora voglio concentrarmi soprattutto sulla musica». 

Troppo faticoso essere una coppia in scena e nella vita?
«No. È solo una questione di scelte. A lui devo tantissimo: il primo spettacolo di canzoni, Romana, omaggio a Gabriella Ferri, me lo fece fare lui. Ricordo la prima ad Asti. Ero terrorizzata: brani in romanesco nel profondo nord... Alla fine ci furono dieci minuti di applausi e 180 repliche in un anno e mezzo. Da allora iniziai a studiare e interpretare Bertolt Brecht, Kurt Weill, I monologhi della vagina di Eve Ensler...».

C’è chi la definisce un’intellettuale militante: non è troppo?
«Sono solo un’attivista culturale legata alla coerenza: non si può essere in un modo sul palco e in un altro fuori. Così si tradisce chi ci segue».

Lei dal 2014 dirige a Roma l’Officina Pasolini, un laboratorio di formazione artistica per il teatro, la canzone e il multimediale della Regione Lazio: con la politica ci sa fare, mi sembra.
«Faccio solo la mia parte. E mi hanno aiutata. Ho iniziato nel 2010 con i corsi di formazione della Provincia di Roma, i primi dedicati agli artisti».

Grazie a Nicola Zingaretti, allora presidente?
«Sì, a lui e all’allora vice presidente Massimiliano Smeriglio. Poi Zingaretti nel 2014 passò alla Regione. Mi convocò e mi disse: “Ci sono dei fondi europei, cosa si può fare per la formazione?”. Gli presentai il progetto e dopo sei mesi arrivò l’ok, prima per sei mesi e poi, sommersi dalle richieste d’iscrizione, a tempo indeterminato».

Quanto costa tutto questo?
«Quattro milioni e 800 mila euro ogni tre anni. Io ho la supervisione artistica. Ogni anno abbiamo 105 studenti fra i 16 e i 32 anni. Il nostro motto è “Non per arrivare ma per restare”. Non siamo un talent show dove contano solo gli ascolti».

Ma lei non lavorò con Maria De Filippi dal 2001 al 2003?
«Sì, sono stata la prima giudice e la prima coach. Poi me ne andai perché era solo intrattenimento. E competizione».

Un anno e mezzo fa il precedente governo ha preso la decisione di riprendersi gli spazi della scuola (si trova di fronte al palazzo del ministero degli Esteri, ndr): che fine farete?
«Il ministero dice di averne bisogno per gli uffici. In cambio ci darebbero gli spazi di fronte, ma da noi c’è l’ultimo teatro di Eduardo De Filippo: faremo di tutto per non andar via. Speriamo nel nuovo governo».

Il suo mandato quando scade?
«Fra tre anni. Mi piacerebbe creare legami con Parigi, Lisbona e Cuba. Spero di farcela. Nel frattempo Niccolò Fabi è il nuovo direttore musicale. Mi piacerebbe che si creassero onde artistiche: ora Fabi, poi Daniele Silvestri...».

A proposito, una canzone di Silvestri del 1995 si intitolava “Le cose che abbiamo in comune”: lei con Giorgia Meloni cos’ha in comune?
«La Garbatella. Anch’io sono cresciuta lì. Me la ricordo da ragazzina, lei e la sorella. Ci incontravamo spesso con le biciclette». 

Faticoso occuparsi dei giovani?
«Sì, molto. Una grande responsabilità, come se avessi tanti figli, io che non ne ho».

In generale ha raccolto quanto meritava?
«Sui social si dice che avrei dovuto raccogliere di più, ma non è così. Ho scelto altre strade e bisogna sapersi accontentare. Quando Amadeus, due anni fa, mi ha chiamata per invitarmi al Festival ho pensato a uno scherzo».

Di recente ha detto che Sanremo non è come Lourdes: conferma?
«Certo. È una vetrina unica, ma chi si aspetta il miracolo, resterà deluso».

Chi vincerà?
«Bisogna sentire le canzoni, ma d’istinto dico Ultimo. Anche se vorrei lo vincesse Levante». 

Qual è la cosa che non è riuscita a fare e le brucia di più?
«Un duetto con Pino Daniele che avrei dovuto fare nel 1995, ma poi saltò per beghe discografiche».

Quello che interpretò Irene Grandi, “Se mi vuoi”?
«Poi lo fece lei, sì, ma la mia canzone era un’altra. Che peccato, adoravo Pino».

È più fiera di cosa, fra le tante fatte?
«Officina Pasolini, la scuola. E poi le collaborazioni con gli stranieri: Adriana Calcanhotto, Luisa Sobral, Ivan Lins, Arnaldo Antunes... Il duetto fatto venticinque anni fa con Chico Buarque».

Frequentando spesso Lisbona e il Brasile ha imparato il portoghese?
«Poco, ma ci capiamo lo stesso. Io parlo francese e detesto l’inglese, anche se mia nonna era americana. Da emigrante tornò a nove anni da lì e rimase un anno muta perché nessuno la capiva. Per chi rientrava era durissima: significava che non ce l’avevi fatta».

Il regalo di Natale più importante a chi lo farà?
«Dico una meravigliosa banalità: ai miei genitori. Sono molto anziani e non stanno tanto bene. Uno li dà per scontati e invece non è così». 

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