Sean Connery, quella volta insieme allo stadio Olimpico per Roma-Juve e lui fermò l’ultrà che fuggiva

Sean Connery, quella volta insieme allo stadio Olimpico per Roma-Juve e lui fermò l’ultrà che fuggiva
di Enrico Vanzina
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Domenica 1 Novembre 2020, 09:38 - Ultimo aggiornamento: 15:34

A metà degli Anni 80, nel periodo delle riprese a Roma de Il Nome della Rosa, ho avuto il grande privilegio di conoscere Sean Connery.
Ripeto, Sean Connery, non James Bond, l'agente 007. Bond indossava lo smoking, guidava le Aston Martin, beveva Dom Perignon, frequentava le bionde fatali e i casinò. Sean Connery, invece, l'uomo, era rimasto molto simile alle sue origini contadine.

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Un ragazzone della low class, cresciuto facendo il camionista, il muratore, il bagnino, il lavapiatti e il marinaio sulle navi militari della flotta.

Sean non era affatto James Bond, era lo scozzese fiero e rude, bello e semplice, che portava tatuati sul braccio Scotland for ever e Mom & Dad. Uno di quegli scozzesi che incontri nei pub di Edimburgo a bere birra e a sognare l'indipendenza.

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A presentarmi Sean Connery fu Fernando Ghia, un mio caro amico che viveva a Los Angeles, occupandosi delle produzioni internazionali di Franco Cristaldi, il produttore de Il Nome della Rosa, di Jean-Jacques Annaud. Lo conobbi a cena al Bolognese e mia moglie Federica entrò subito in grande simpatia con Micheline, sua moglie, una pittrice simpatica e intelligente, piccola piccola, forse nemmeno la metà, in peso e altezza, dell'affascinante marito. Federica e Micheline iniziarono a uscire spesso insieme e alla fine cominciai anche io a entrare nelle simpatie di Sean.


Una domenica si giocava all'Olimpico un grande match: la forte Roma di allora, contro la fortissima Juventus. Sean, amante di football, chiese di venire allo stadio e così, insieme a Fernando Ghia, anche lui romanista sfegatato, ci accomodammo tutti e tre in tribuna. Per interpretare il ruolo del film, Connery si era fatto crescere, per la prima volta, la barba bianca. Difficile riconoscerlo. Per passare ancor più inosservato tra la folla, si era anche messo in testa uno zuccotto di lana, tirato giù fino agli occhi. Non ricordo il risultato del match, mi sembra che fu un pareggio. Bellissima partita, però. Sean si divertì tantissimo.

 

Alla fine ci avviamo tra il fiume di tifosi per andare a riprendere al parcheggio la nostra macchina. Improvvisamente, si udirono delle urla. Ci fu uno sbandamento tra la gente. Sean fu preso in pieno da un ventenne che scappava dalla carica della polizia. Aveva un bastone in mano. Sean lo afferrò per la collottola con forza. Il teppista si girò e alzò il suo bastone per reagire. Ma rimase impietrito e riconoscendolo balbettò: «007!...» Sean sorrise e con incredibile umorismo gli disse. «No, Connery Sean Connery».


Finì a tarallucci e vino. Con una decina di giovani ultras romanisti che si fecero fare l'autografo da Connery. E anche un vigile. Allora non c'erano i selfie. Era un mondo più genuino. Nel quale gli eroi erano come quel fantastico scozzese, gente come noi. Addio Sean, che bella persona eri.
 

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