Ricky Memphis: «Continuo a fare il romano verace, ma sono stanco. Ora sogno ruoli più drammatici»

L'attore: «Non ho avuto il coraggio di mettermi in gioco. Sono stato in terapia quando è nato il mio primo figlio: essendo cresciuto senza padre, il mio era morto in un incidente quando avevo 4 anni, non avevo il libretto d’istruzioni»

Ricky Memphis: «Continuo a fare il romano verace, ma sono stanco. Ora sogno ruoli più drammatici»
di Gloria Satta
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Sabato 10 Giugno 2023, 00:28 - Ultimo aggiornamento: 07:30

E pensare che ha sempre avuto paura di rimanere disoccupato. Era il 1990 e Ricky Memphis, “poeta metropolitano” in azione nell’underground romano, venne invitato a leggere i suoi versi al Costanzo Show. Da casa Ricky Tognazzi e Simona Izzo rimasero folgorati e sui due piedi lo scritturarono per il film Ultrà. Da allora l’attore, all’anagrafe Riccardo Fortunati (il nome d’arte è un omaggio a Elvis), non si è più fermato: oggi, 54 anni e due figli, disincanto tutto romano e ironia sorniona tanto sullo schermo quanto nella vita, ha costruito una solida carriera tra cinema e tv collezionando successi come Distretto di polizia, Immaturi, Lockdown all’italiana, tanti film di Carlo Vanzina, Loro del premio Oscar Paolo Sorrentino. Lo rivedremo il 21 giugno nella commedia di Volfango De Biasi Un matrimonio mostruoso, poi il 14 agosto ne I peggiori giorni di Massimiliano Bruno, quindi farà Ciceruacchio nella fiction Rai L’Italia chiamò su Goffredo Mameli e tornerà a indossare il camice dell’infermiere razzista in Tutto chiede salvezza 2, la fortunata serie Netflix di Francesco Bruni.

Le è passata finalmente la paura della disoccupazione?
«L’ansia di rimanere senza lavoro mi accompagna ancora ma poi, diciamo la verità, mi do poco da fare per sventare il rischio».

È contento di quello che ha ottenuto finora?
«Sì, ma potrei lavorare di più e meglio.

Ultimamente mi arrivano tante proposte per fare partecipazioni, piccoli ruoli: li chiamerei “camei” se fossi un grande attore».

E non lo è?
«Sono piuttosto un “grosso” attore (ride, ndr). In passato avrei potuto fare scelte diverse, dire qualche no in più. Invece molti film li ho scelti solo per soldi».

Se ne pente?
«Non ho avuto il coraggio di mettermi in gioco uscendo dal seminato, cioè dal personaggio del romano. Oggi vorrei fare qualcosa di completamente diverso».

Cosa?
«Un tipo tormentato, impicciato interiormente, che non fa ridere. Un ruolo alla Elio Germano, insomma. È una sfida e sono pronto ad affrontarla, spero che mi diano fiducia».

Si è stancato dei ruoli del romano verace, anche se le hanno regalato la popolarità?
«Per carità, non mi sento una vittima, ma la voglia di fare anche altre cose l’ho sempre avuta. Poi la pigrizia mi ha fermato, ho cercato la via più facile».

Cosa fa quando non è sul set?
«Non ho hobby. Un guaio, come diceva il mio analista».

È in terapia?
«Ci sono stato quando è nato il mio primo figlio. Essendo cresciuto senza padre, il mio era morto in un incidente quando avevo 4 anni, non avevo il... libretto d’istruzioni».

È mai stato vittima di pregiudizi a causa della sua romanità?
«Non me ne sono accorto. Semmai sono stato considerato un ignorante. Ma anche se ho fatto solo la terza media e le superiori ai corsi serali, ho recuperato leggendo tanto. Anche quegli autori, come Manzoni, che a scuola ci andavano di traverso. Ora sto in fissa con la letteratura crime».

Scrive ancora poesie?
«No, l’ho fatto in gioventù perché speravo di essere notato e diventare attore. Esprimevo il mio disagio di ragazzo di periferia senza un soldo. Se avessi continuato dopo aver avuto successo sarei stato un ipocrita».

Si possono stringere vere amicizie nello spettacolo?
«Sì, io sono legatissimo a Giorgio Tirabassi e Claudio Amendola».

Com’è stato crescere a Primavalle?
«Ho avuto un’infanzia felicissima in quel quartiere, che era tranquillo. Noi ragazzini vivevamo in strada, ma non c’era nulla di inquietante. Sono venuto su con mia madre, ausiliaria al Bambin Gesù, e alla nostra folta famiglia».

 

È molto cambiata la vita a Roma?
«Io ci vivo benissimo. Al di là di quello che si pensa, qualunque disagio, qualunque ingorgo valgono la meraviglia di vivere in questa città che non ha eguali nel mondo».

E cos’è per lei la Roma?
«È un legame profondo, una fede. Il mio più grande amore dopo la famiglia».

Il suo successo più importante?
«La paternità».

Cosa insegna ai suoi figli, di 17 e 10 anni?
«L’onestà, innanzitutto. E, secondo il detto evangelico, li esorto ad essere puri come colombe e astuti come serpenti».

Sogna anche lei, come molti attori, di fare il regista?
«La tentazione di avere il controllo totale esiste ma dopo aver lavorato con tanti professionisti, a cominciare da Vanzina, non mi permetterei mai».

Riuscirà a “uscire dal seminato” facendo ruoli diversi dal romano verace?
«Dipende solo da me. Devo darmi una mossa».

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