Giancarlo De Sisti compie 80 anni: «Io, Picchio e la mia vita da regista»

Nel giorno del suo compleanno il grande centrocampista si racconta: Roma, Firenze, la nazionale e Liedholm

Giancarlo De Sisti compie 80 anni: «Io, Picchio e la mia vita da regista»
di Alessandro Angeloni
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Lunedì 13 Marzo 2023, 07:12 - Ultimo aggiornamento: 14 Marzo, 08:57

Auguri Picchio. Scusi, perché "Picchio"?
«Quando ero bambino andava di moda un giochino: una specie di cono di legno, avvolto da uno spago, che andava tirato per far girare il cono. Che poi saltellava a terra, come una trottola, un picchio. Io in campo ero un po' così».

Saltello dopo saltello, siamo arrivati oggi a ottanta anni. Come si vede nei prossimi ottanta?
«Io nella vita ho fatto tutto, ho ricevuto tanto. Non guardo troppo in avanti, vivo giorno dopo giorno. Felice di quello che ho fatto, della mia famiglia, dei miei nipoti, convivo con i miei problemi alla schiena. Spero solo di andare avanti stando bene, finché il Signore lo vorrà».

E' credente?
«Sì, tanto. Prego, vado a messa. Era un'abitudine anche quando facevo il calciatore. Una volta tornando da una messa, mi dissero che c'era la possibilità di giocare al posto di Lojacono che stava male».

Come ha cominciato?
«In parrocchia, come tutti in quel periodo. Io abitavo al Quadraro. Una volta non c'erano le selezioni come oggi, si rispondeva agli annunci delle "leve". Arrivai alla Roma così: "Presentarsi nel luogo x all'ora x, già mangiati. Mio padre, Romolo, operaio della Stefer, amava il calcio ed era felice di vedermi giocare; mia madre, Maria, segretaria alla Centrale del latte, diceva che sudavo e mi sporcavo, era contraria, mi bucava continuamente il pallone. In quell'epoca, l'Omi mi offriva 36 mila lire, ero combattuto, ci facevano comodo, ma non accettai».

 

Il richiamo della Roma...
«A casa mia erano un po' tutti romanisti, inevitabile.

Per me è stato un onore vestire la maglia giallorossa e poi quella della Fiorentina. Non mi faccia scegliere, non sarei capace. Sono felice di essere nella Hall of fame delle due società. Significa che qualcosa ho lasciato».

Che giocatore era?
«Tatticamente - e sottolineo tatticamente - non avevo rivali. Ero sempre nel posto giusto, al momento giusto. Stoppavo i palloni e giocavo corto. Oggi si direbbe che vedevo le linee di passaggio. Ecco il lo facevo senza sapere che quaranta-cinquanta anni dopo le avremmo chiamate così».

E tecnicamente come era?
«Me la cavavo ma c'erano calciatori più bravi, penso a Mazzola, Rivera».

I due rivali storici e lei in mezzo che il posto in Nazionale non lo perdeva mai.
«Tutti sostenevano, specie Gianni Brera, che io ero per Sandro, perché eravamo amici, ma io ero pure per Rivera, perché sapevo giudicare oltre l'amicizia: io, come si dice a Roma, sto coi frati e zappo l'orto. Poi con Mazzola litigai anche e i rapporti a un certo punto della vita si sono freddati».

In quale occasione?
«Sandro era presidente del settore tecnico della Figc, io allenavo l'Under 18. Un giorno mi mandò una lettera di censura perché non mi ero presentato a un riunione. Ma come facevo? Ero impegnato con la nazionale e lui doveva saperlo. Prese d'aceto».

Un personaggio della sua vita: Liedholm.
«Il Barone era unico. Aveva questo aspetto dolce, ma poi sapeva essere tosto nello spogliatoio. Sono stato suo calciatore, gli ho fatto da assistente e anche da autista».

Addirittura?
«Sì e non mi vergogno di dirlo, anzi ne sono orgoglioso. Lo passavo a prendere tutti i giorni a casa, dai Castelli, dove abitavo io, al Teatro Marcello, dove stava lui: sono stati momenti di grande insegnamento, anche quelli, chiusi in macchina a chiacchierare, ad ascoltarlo durante le interminabili cene alla Taverna Flavia. La sua ironia, i suoi racconti, e poi vai a sapere se fossero tutti veri. Qualche c...ata l'avrà pure raccontata il Barone, ma faceva parte del personaggio. Ricordo quando mi disse che con un tiro colpì la traversa e la palla era talmente forte che nel rimbalzo tornò a centrocampo».

E in macchina di cosa altro parlavate?
«Di tutto. Una volta a uno stop, mi girai a destra e sinistra per vedere se passavano le macchine e lui mi disse: "Jancarlo, che fai: non devi muovere la testa, ma solo gli occhi. Un centrocampista deve avere percezione a centottanta gradi senza muovere la testa". "Mister, gli chiedo io, lei pure la muove così?" . "No, mi rispose, io percezione a trecentosessanta gradi"».

Cosa ha significato per lei la Fiorentina?
«Nove anni bellissimi. Non volevo andare via da Roma, era molto abitudinario, avevo la fidanzata, mi pesava spostarmi. Ma poi ho trovato una seconda casa. Prima da giocatore e poi da allenatore».

E da tecnico sfiorò anche uno scudetto storico.
«C'è mancato poco, mi sono sentito derubato. Punto a punto con la Juve: ultima giornata, a noi, contro il Cagliari, è stato annullato un gol regolare, a loro concesso un rigore dubbio, contro il Catanzaro. Sarebbe stato un successo storico dopo una grande cavalcata. In più, quell'anno perdemmo Antognoni per dodici giornate a causa del terribile scontro con Martina. Togliere alla Fiorentina Giancarlo era come privare la Juve di Platini o la Roma di Falcao. Eppure siamo arrivati per un pelo alla vittoria. A Firenze ancora oggi dicono: meglio secondi che ladri. Peccato, dopo aver vinto il titolo come calciatore, potevamo chiudere il cerchio».

Nel periodo fiorentino rischiò anche di morire.
«Per un sub-ascesso dentale, subii un intervento al cervello. Ero a Chieti e avvertii dolori alla testa, per fortuna sono intervenuti in tempo e mi salvai. Provai ad allenare sotto psicofarmaci, ma alla fine non ce la facevo e ho dovuto lasciare».

L'esperienza ad Ascoli?
«Mi sono accorto che non si poteva costruire. Io chiedevo certi calciatori e il presidente Rozzi me ne faceva arrivare altri, ci furono problemi, mi tirarono una bomba carta in casa».

Rozzi aveva rapporti con Moggi?
«Beh, c'era una collaborazione, Moggi era un suo uomo. Mi ha fatto ostruzionismo, terra bruciata. Da quel momento non allenai più, mi ha cercato solo la Rossanese. Ma alla fine la gente ha capito e si è schierata dalla mia parte».

Dal nemico agli amici: con chi ha legato nelle sue esperienze?
«Ce ne sono tanti, da Schiaffino a capitan Losi, da Bulgarelli a Pestrin, un altro con cui ho sempre avuto un grande feeling è Bruno Conti. C'è anche Mazzola naturalmente, anche se poi ci siamo un po' persi. Con alcuni di loro, Bulgarelli ad esempio, abbiamo anche fondato una specie di sindacato. Siamo stati i primi ad occuparci dei diritti dei calciatori più "deboli", quelli che non guadagnavano tanto e che faticavano più degli altri. Abbiamo inventato il sindacato, che oggi tutela tutti i calciatori».

Di Bartolomei è stato un po' il suo erede nella Roma?
«Agostino era un grande uomo. Serio, sempre concentrato, un capitano vero. Come giocatori eravamo diversi, io più mobile, lui più organizzatore di gioco; io avevo il passaggio corto, lui lungo e aveva la "botta". Diversi, insomma».

Che rimpianti si porta dietro?
«Non aver vinto il Mondiale del 70 in Messico. Ho fatto parte di una partita leggendaria come quella con la Germania, ma battere quel Brasile era difficile se non impossibile. Siamo arrivati in finale ma eravamo come un pugile suonato. L'Europeo da titolare, grande soddisfazione invece».
 

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