Passione e coraggio di pilota: «Molte aquile ho visto in volo, l'amore straordinario per il cielo di mio fratello Alberto» La poesia-profezia

Passione e coraggio di pilota: «Molte aquile ho visto in volo, l'amore straordinario per il cielo di mio fratello Alberto» La poesia-profezia
di Paolo Ricci Bitti
6 Minuti di Lettura
Giovedì 29 Ottobre 2020, 03:12 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 15:22

Dall’amore assoluto per il volo, con un tragico epilogo, all’amore assoluto per il fratello maggiore che non c’è più, anche se in realtà basta alzare gli occhi per sentirlo vicino, magari come fanno tutti gli innamorati del cielo quando avvertono il ronzio di un'elica o il sibilo di un jet.

E' la storia raccontata in “Molte aquile ho visto in volo-Vite straordinarie di piloti”, di Filippo Nassetti per Baldini+Castoldi, uscito durante la fase più dura della pandemìa da Covid che ha atterrato gran parte degli aerei. Non è però un libro sul volo e sui piloti, ai quali sappiamo di dovere grande riconoscenza perché ci portano per aria: è piuttosto un commovente attestato d'amore, di stima, di malinconia e di speranza che l’autore si è tenuto dentro, impastandolo un giorno dopo l’altro dal 1994, anno in cui il fratello Alberto morì precipitando a Tolosa con un Airbus 330.

Il comandante con la divisa dell’Alitalia non era ancora 28enne quando divenne tutt'uno con la sua profezia, con la sua impressionante poesia-epitaffio che lui stesso aveva scritto tre anni prima, appena scampato alla morte per un tumore al cervello:

“Molte aquile ho visto in volo, ali maestose sfidare il suolo, rapaci solitari incontro al sole, imperiali figure sfrecciare nelle gole, ancora a lungo le vedrò, poi, con loro, io morirò”.

Forse per pudore, certo per rendere omaggio al mondo prediletto dal fratello, Filippo Nassetti, bolognese poi cresciuto a Ostia, dirigente Alitalia, narra il suo infinito affetto per Alberto insieme alle storie di altri straordinari piloti, ma nessuno di loro ha compiuto l’impresa di risorgere ai comandi di un aereo dopo la rimozione di un cancro alla testa. Nessuno di loro ci ha mostrato, fino a quel punto, che cosa significhi dare un senso alla vita.

Proviamo a immaginare, anche se non siamo i piloti-scrittori Daniele Del Giudice, Antoine de Saint-Exupèry, Richard Bach o Amelia Earhart, che cosa avremmo fatto una volta che il medico ci avesse consegnato un miracoloso certificato di guarigione, però assolutamente inutile. «Alberto, l’hai scampata bella, dovevi morire e invece sei vivo, l’intervento e la tua tempra ti hanno salvato, puoi andare a casa, mettere su famiglia, viaggiare, ogni sport ti è concesso. Solo e soltanto una cosa non potrai fare mai più: il pilota di aerei di linea». Non era un ordine dei neurologi, era la banalità della malvagia evidenza: non esisteva nemmeno un caso al mondo di un pilota che fosse tornato in servizio dopo un’operazione al cervello. Nemmeno uno. Inutile provare, insomma, a far decollare di nuovo il sogno.

Alberto Nassetti

Alberto, primo di quattro figli, con una lettera che valeva più dei suoi 14 anni, aveva convinto i genitori a iscriverlo all’aeronautico “Baracca” di Forlì: niente Scientifico, non voleva diventare ingegnere informatico come speravano i suoi. Voleva fare il pilota a ogni costo, anche quello di pendolare ogni giorno tra Bologna e la Romagna, due ore all’andata e altrettante al ritorno fra corriere e treni.

Aveva il volo dentro, Alberto, e anche quei tre colori disegnati sugli impennaggi di coda: a 23 anni e tre settimane è già ai comandi del volo Alitalia AZ-1440 Roma-Zurigo. Una carriera fulminea, senza trascurare tuttavia di insegnare come ci si comporta (rispetto, lealtà, passione, impegno) ai fratelli minori, compreso Filippo, sgridato prima dal maestro di tennis e poi dallo stesso fratello maggiore dal quale si attendeva invece malriposta complicità.

L’enfant prodige della compagnia di bandiera scala in fretta le gerarchie, ma due anni dopo proprio lui, il comandante, l’atleta, lo scalatore, il motocrossista, perde l’equilibrio, scivola sul parquet.

La risonanza è perentoria: tumore maligno al cervello. Alberto vacilla, ma non stalla, ridà manetta e trova uno specialista che modifica la prognosi: «E’ un tumore sì largo 6 centimetri, ma benigno. Si può tentare di rimuoverlo».

Subito sotto i ferri all’inizio del 1991: ai familiari il pilota aveva detto mezza verità, solo un ematoma da togliere. Intervento riuscito. Alberto non morirà, non finirà nemmeno su una sedia a rotelle, anzi si riprenderà bene perché ha la pelle dura, ma forse adesso vanno trovati altri aggettivi, altri verbi, altri destini: che vita sarà per lui se non potrà più fare il comandante pilota?

La poesia-epitaffio “Molte aquile ho visto in volo… Io morirò” risale a quei mesi, quando il giovane sopravvissuto affronta sedute di terapia con una psicologa.

La lotta per vivere davvero sembra però zavorrata al suolo: le commissioni mediche non hanno casi precedenti a cui appoggiarsi. L’Alitalia gli offre un incarico in aeroporto: «No, grazie». Bisogna tracciare una rotta su territori inesplorati e allora Alberto riesce a coinvolgere l’aeronautica militare americana, l’Usaf, che schierava piloti che avevano subìto la sua stessa operazione al cervello.

Il vento non porta via troppi foglietti del calendario: a undici mesi dall’intervento, Alberto stacca di nuovo l’ombra da terra con un velivolo dell’Alitalia e nel febbraio del 1992 torna in servizio effettivo. Un miracolo? Macché, ad Alberto non basta ancora, non può bastare per vivere perché, nonostante i suoi fenomenali progressi, l’idoneità va rinnovata ogni sei mesi e, soprattutto, viene legata alla formula dell’equipaggio “rinforzato”: in cabina di pilotaggio vanno in tre, come durante i corsi di addestramento. Già, come potrebbe Alberto accontentarsi di questo stratagemma? Una volta che ricevi le ali (la spilla che si merita dopo il primo volo senza istruttore) non vuoi più decollare solo sotto tutela. Per vivere-volare davvero bisogna essere liberi. Bisogna lottare ancora per onorare quel ragazzino che si faceva quattro ore di viaggio ogni giorno per andare a scuola al “Baracca”.

Alberto diventa un caso per l’aviazione mondiale, se ne parla nei convegni internazionali, si susseguono le visite negli studi dei luminari, comprese quelle negli States riservate agli astronauti. Il pilota le supera tutte e nell’aprile del 1994 la resurrezione è compiuta: addio ai test semestrali, addio all’equipaggio “rinforzato”. Il comandante Alberto Nassetti, 27 anni, è tornato.

Non farà in tempo a compierne 28. Il 30 giugno 1994 sale a Tolosa su un volo di collaudo di un Airbus 330 per conto del sindacato dei piloti, con lui anche Pier Paolo Racchetti, 29 anni. Su quell’aereo, in 60 secondi, muoiono in sette e da allora nella flotta dell’Alitalia ci sono sempre aerei dedicati a Nassetti e a Racchetti, nel 2005 decorati alla memoria dal presidente Carlo Azeglio Ciampi con la medaglia d’oro al merito civile.

Lottare per dare senso alla vita: ce lo ricorda Filippo Nassetti con il suo atto di amore per il fratello.

Filippo Nassetti

***

"Molte aquile ho visto in volo-Vite straordinarie di piloti"

di Baldini+Castoldi (145 pagine - 15 euro)

La storia di Alberto Nassetti e le storie di Marco Conte, Tullio Picciolini, Dino Iuorio, Antonino Vivona, Francesco Miele

Prefazione di Gabriele Romagnoli

© RIPRODUZIONE RISERVATA