Lavoro, boom di dimissioni dopo il Covid (ma 1 su 4 non lo rifarebbe)

A quanto pare gli operatori del settore alberghiero (31%) sono i più propensi a pentirsi di aver smesso, mentre appaiono gli operatori sanitari (14%) quelli più convinti della decisione

Lavoro, boom di dimissioni dopo il Covid (ma 1 su 4 non lo rifarebbe)
di Michele Di Branco
4 Minuti di Lettura
Lunedì 21 Novembre 2022, 06:34 - Ultimo aggiornamento: 07:18

C'è una irresistibile scena del film Manhattan in cui uno stralunato Woody Allen, sceneggiatore frustrato, si sfoga con un amico dicendogli: «Me ne sono andato e per 5 minuti mi sono sentito un eroe, adesso mi sento solo un disoccupato». Ecco, appunto. Nel mondo occidentale angustiato dalla crisi e dalla psicosi originata dal Covid, a milioni, insoddisfatti e desiderosi di trovare una collocazione migliore, lasciano il lavoro per poi pentirsene amaramente quando ormai è troppo tardi per fare marcia indietro. È l'altra faccia del fenomeno del Great resignation, la grande fuga dagli uffici e dalle fabbriche. Secondo il sondaggio sulla situazione del mercato del lavoro diffuso da Joblist e realizzato su un campione di 15 mila persone in cerca di occupazione, un lavoratore su quattro (26%) che ha lasciato il posto di lavoro afferma di essere rammaricato della sua decisione. A quanto pare gli operatori del settore alberghiero (31%) sono i più propensi a pentirsi di aver smesso, mentre appaiono gli operatori sanitari (14%) quelli più convinti della decisione, probabilmente a causa del burnout causato dalla pandemia che ha messo a dura prova il loro benessere psicofisico.

Reddito di cittadinanza, come cambierà: ipotesi stop dopo 18 mesi, ecco quanti lo perderanno


LE MOTIVAZIONI
La cosa apparentemente inspiegabile è che il 40 per cento di coloro che si sono licenziati non avevano un'alternativa pronta tra le mani. Semplicemente erano stanchi di essere lì dove operavano. Ma poi è emersa la nostalgia. Il sondaggio Joblist riferisce che la ragione del pentimento è dovuta alla mancanza dei vecchi colleghi (22%), in altri casi il nuovo lavoro non è quello che si sperava (17%) o addirittura il vecchio lavoro era migliore di quanto pensassero (16%). Qualcuno infine semplicemente non si trova bene nella nuova azienda (9%).
Dal momento che sembrano così diffusi i rimpianti dopo essersi dimessi, i datori di lavoro  decidono di sondare gli ex dipendenti per convincerli a tornare.

Nel sondaggio realizzato da Joblist, il 23% degli intervistati ha riferito che il precedente datore di lavoro li ha contattati chiedendogli di ripensarci dopo aver lasciato. Tra i settori con più richieste dai vecchi datori di lavoro ci sono l'istruzione (33%) e lavoratori al dettaglio (30%). Gli intervistati si sono divisi quando è stato chiesto loro se tornerebbero al vecchio lavoro. La maggioranza (59%) ha detto «no», il 17% ha detto «sì» e il 24% era indeciso. Gli operatori sanitari e dell'istruzione (67%) sono stati i più propensi a non mostrare alcun interesse a tornare alle loro vecchie occupazioni.


IN ITALIA
E in Italia come stanno le cose? Secondo i più recenti dati Inps, circa 307mila persone in Italia hanno dato le dimissioni dal loro lavoro nel primo semestre del 2022, dato mai così alto negli ultimi otto anni. Rispetto al 2021, l'Istituto ha registrato un incremento del 35%. E sul dato influisce soprattutto il fattore giovani. Il fenomeno delle Grandi dimissioni, secondo i calcoli di Randstad, è cresciuto del 44% negli ultimi 18 mesi e nel 76% dei casi si tratta, appunto, di millennials. Fra le cause principali ci sono l'insoddisfazione, la demotivazione e la mancanza di obiettivi. E in metà delle aziende le dimissioni incidono sui livelli di performance aziendale e sul clima interno. In molti, come detto, si pentono della loro scelta. Ma moltissimi non tornano indietro neppure se gli si offrono ponti d'oro.
«Le evidenze - spiega Caterina Gozzoli, direttrice dell'Alta Scuola di Psicologia dell'Università Cattolica - dicono che per le persone il benessere al lavoro non può più essere limitato a benefit aggiuntivi. La cultura organizzativa deve riconfigurare il benessere come una dimensione connessa alla quotidianità, al senso del lavoro, a obiettivi condivisi e condivisibili. Le persone portano il bisogno di sentirsi protagoniste nella quotidianità professionale. Questo si collega anche al progressivo venire meno del senso di appartenenza nei confronti dell'organizzazione, con un conseguente impoverimento del patrimonio aziendale».

© RIPRODUZIONE RISERVATA