Jacobs: «Non abbandonerò mio figlio Jeremy come mio padre ha fatto con me: per lui ci sarò sempre»

Jacobs: «Non abbandonerò mio figlio Jeremy come mio padre ha fatto con me: per lui ci sarò sempre»
di Luca Uccello
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Domenica 3 Aprile 2022, 09:58

Marcell Jacobs è nato a El Paso, in Texas. Ma di quella vita non ricorda niente. Ricorda solo i viaggi al mare in camper con i nonni: Rosanna e Osvaldo. E poi le corse in motocross di suo zio Giancarlo. Uno zio coraggioso e sfortunato, finito sua una sedia a rotelle dopo un incidente. Però «a Rio 2016 ha vinto la medaglia di bronzo alle Paralimpiadi. Il primo olimpionico in famiglia è stato lui». Poi è toccato a lui a lle Olimpiadi di Tokyo. Ma Marcell è andato avanti vincendo l’oro sui 60 metri ai Mondiali indoor.  

Al Corriere della Sera ha raccontato che «è stata la vittoria più difficile.

In molti avevano sollevato mille dubbi: sarà deconcentrato, non avrà più fame... Tanti non conoscono l’atletica, pensano che si possa vincere l’Olimpiade così, con una botta di culo. Dovevo far capire che Tokyo non è stata un caso…» . Ma gli esami non finisco mai e «questo sarà l’anno più importante della mia vita: ci sono i Mondiali e gli Europei. E avrò gli occhi di tutti puntati addosso. Mi studieranno per capire come battermi».

La storia della famiglia di Jacobs

Marcell Jacobs oggi ha 27 anni ed è cresciuto solo con l’affetto di suo padre, che ha il suo stesso nome. «All’inizio mi è mancato. Poi mi sono abituato, e non ci ho pensato più. Dal restarci male sono passato alla mancanza di sentimento: papà non c’è, e basta. Mia madre Viviana ha trovato un nuovo compagno, e nel giro di due anni sono nati i miei fratelli, Niccolò e Jacopo».

Un padre che ha ritrovato in America, che sente e che non mancherà al suo matrimonio con Nicole Daza: «Il 17 settembre mi sposo, e dall’America verranno in diciotto: lui, la zia, la nonna, due zii, i cugini... E dall’Ecuador verranno i parenti della mia donna, Nicole».

Tempo fa disse: «Mio bisnonno ha abbandonato mio nonno, mio nonno ha abbandonato mio padre, mio padre me». E anche il campione italiano ha un figlio con cui non vive.  «Toccava a me interrompere la negatività. Anche per questo ho deciso che dovevo prendermi cura di Jeremy, che è nato quando avevo vent’anni, e ne compie sette a dicembre. È vero, l’ho visto poco. Sta in un’altra città, e d’estate quando è in vacanza io gareggio in giro per il mondo. Ma sono suo padre, e per lui ci sarò sempre».

 

Capitolo idoli nello sport come nella vita. Nell’atletica è Andrew Howe («Italiano e mulatto, co- me me. Ero in Calabria quando vinse l’argento ai Mondiali, e davanti alla tv ho pensato: un giorno salteremo insieme»),  fuori dall’atletica invece è «Hamilton. L’unico mulatto della Formula Uno. Ed è tatuato, come me».  Domanda diretta: quali tatuaggi si è fatto dopo Tokyo?  «Il racconto dell’Olimpiade, sul braccio sinistro: la fiaccola, Ercole che sorregge una meda- glia d’oro, un paesaggio del monte Fuji con pa- goda, i cinque cerchi, e “Italia” scritto con i caratteri giapponesi che avevamo sulla tuta». Quello che tutti si chiedono è chissà dove sarebbe arrivato se «non avessi avuto una serie infinita di guai? Ognuno si è rivelato un’opportunità».

Altra domanda del Corsera. Le hanno dato fastidio le voci sul doping? «Non mi hanno toccato per nulla. Sono state messe in giro da persone che non conoscono l’atletica, e non conoscono me. Gente che non sa nulla degli anni bui, delle sofferenze, di tutte le cose che le ho raccontato. Per loro un italia- no non poteva vincere l’oro nei 100. Ma io lo so quanto ci ho messo».

Prossimo obiettivo? Mettere il suo nome al posto di quello di Pietro Mennea: «Non l’ho mai incontrato, ma so che è una leggenda, che faceva allenamenti durissimi. Oggi tutti e tre i record europei della velocità sono di un italiano: i 60 e i 100 miei, i 200 suoi. Ora il mio allenatore vuole farmi provare i 200, ma io non voglio… Ma almeno una volta la gara di Pietro Mennea la devo fare».

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