Le influencer italiane: «Ci serve il sindacato. Ambiente di squali, i rischi sono altissimi»

Le influencer italiane: «Ci serve il sindacato. Ambiente di squali, i rischi sono altissimi»
di Ilaria Ravarino
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Mercoledì 28 Aprile 2021, 07:24 - Ultimo aggiornamento: 8 Maggio, 16:42

Un sindacato degli influencer italiani, per tutelare i diritti di chi lavora con i selfie e le stories e colmare il vuoto di regolamentazione su tariffe e oneri fiscali. La proposta, lanciata dall'influencer campana 25enne Mafalda De Simone (176.000 follower su Instagram), punta a replicare anche nel nostro paese il modello statunitense e anglosassone, dove dal 2020 le sigle AIC (American Influencer Council) e TCU (The Creator Union) regolano gli aspetti economici del mestiere, supervisionando i contratti e garantendo un trattamento paritario alle star del web. Un universo, quello degli influencer, in cui le micro e le macro star condividono gli stessi problemi: «È un errore pensare di far tutto da soli - racconta Paola Di Benedetto, vicentina di 26 anni e regina di Instagram con un milione 700.000 follower, fidanzata di Federico Rossi del duo Benji e Fede - bisogna proteggersi, avere alle spalle qualcuno che ti preceda e tratti per te con le aziende. In Italia è difficile che quello degli influencer venga considerato un lavoro: dai 50.000 follower in poi, trattare da soli non conviene, meglio rivolgersi a un'agenzia. E poi attenzione: si può guadagnare bene, ma si può perdere altrettanto velocemente il consenso».

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LUPI SOLITARI E SQUALI
Fare il lupo solitario, nel mondo degli influencer, «è molto rischioso - racconta il milanese Yuri Gordon Sterrore, 31 anni, 764.00 follower su Instagram e il terzo libro, Amici Stretti, in arrivo a luglio - perché appena arrivano i soldi il mondo intorno a te si popola di squali. Senza la persona giusta accanto non solo si rischia di non saper chiudere i contratti, ma anche di veicolare, senza volerlo, contenuti non appropriati o offensivi. E dalla shitstorm alla denuncia è un attimo». E se è fondamentale tutelarsi con un manager o un'agenzia, «bisogna stare attenti, perché l'ambiente è anche pieno di sfruttatori, interessati a spremere il fenomeno senza preoccuparsi del futuro».
L'idea di formare un sindacato vero e proprio, tuttavia, raccoglie posizioni contrastanti nel settore. Per la trentenne Martina Chiella, beauty influencer da 301.000 follower (Instagram) «la proposta è intelligente.

Spesso il nostro lavoro è visto come un hobby. Le stesse aziende non hanno capito che con le cose che ci regalano non ci paghiamo il mutuo di casa. Il regalo non è un pagamento: la tavola non la apparecchio con le borse e con le creme». Per Tasnim Ali, l'influencer con il velo (307.000 follower, TikTok), «la proposta di un sindacato può venire in aiuto di chi ha meno follower, e magari si trova a navigare in questo mondo senza un'agenzia. Ma mettere insieme a livello associativo le diverse realtà è complicato, perché chi ha 60.000 follower non vale per le aziende quanto chi ne ha un milione. Su una cosa però sono d'accordo: questa è una professione che farebbe impazzire qualsiasi commercialista».


L'esperienza sindacale americana e inglese, secondo la 33enne Camilla Sentuti, beauty influencer e travel blogger (94.000 follower, Instagram), «fa la differenza. Io ho vissuto 8 anni a New York e ho iniziato a fare questo lavoro negli Stati Uniti. Là i budget per le collaborazioni sono più alti e le aziende sanno che dietro a una foto ben riuscita spesso non c'è il cellulare di un'amica o di un fidanzato, ma un fotografo professionista, delle luci e una location. Il contenuto di livello ha un costo».


VIZIO DI NATURA
Il maggiore ostacolo per la creazione di un sindacato, secondo l'influencer milanese Paolo Stella (378.000 follower, Instagram), risiede in un vizio di natura: «Il problema italiano del fare gruppo. Dare delle regole comuni servirebbe a distinguere tra chi si comporta in maniera professionale e chi, pur avendo i numeri, non lo fa. L'idea è che chiunque oggi possa svegliarsi e diventare influencer, ma non è così: non basta una buona esposizione, serve anche una buona storia da raccontare». Una storia che sia, possibilmente, quella gusta. «Un altro problema - dice Chiella - è che le aziende spesso ci impongono le loro direttive sulla comunicazione. Veniamo scelti per il nostro modo di comunicare alla community, ma poi ci viene chiesto di rispettare un canovaccio scritto da altri, che non sempre funziona. Ed è un autogol, perché in quel caso le aziende non avranno il risultato che cercano. La responsabilità, a quel punto, non può essere nostra».

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