Street art, parla Fin DAC: «Porto bellezza nelle città con le mie geishe punk»

Street art, parla Fin DAC: «Porto bellezza nelle città con le mie geishe punk»
di Matteo Maffucci
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Domenica 7 Marzo 2021, 23:25 - Ultimo aggiornamento: 8 Marzo, 21:11

Le sue donne sono di una bellezza fotonica e se vi è capitato di passeggiare per le vie del Quadraro a Roma vi avranno fulminato. Almeno una, Okurimono (che in giapponese vuol dire dono) perché l'altra si nasconde in un cortile privato. Fin DAC ha dipinto due dei suoi lavori nel museo a cielo aperto della Capitale che ospita le firme più note della street art mondiale. Ritrae donne di origine asiatica, vestite in abiti tradizionali o punk, geishe contemporanee dipinte con uno stile che lui definisce urban aesthetics. Fin DAC vive e lavora a Londra ma le sue opere sono sparse tra strade e gallerie di tutto il mondo: Spagna, Germania, Francia, Stati Uniti, Brasile e Olanda.

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Come è nata l'opera realizzata in anteprima per Il Messaggero?

«Come gran parte del mio lavoro questo è un mix di acrilico e vernice spray, con l'ausilio del nastro adesivo per creare gli effetti. Il mio metodo è sempre lo stesso: parto dai colori, che abbozzo e successivamente fisso.

Dipingo in ginocchio su un cuscino così da essere completamente dentro il dipinto. So che sembra scomodo ma per il mio processo creativo ho bisogno di questa immersione».

E qual è la sua forza per il pubblico?

«Anche se il mio lavoro ha un'inclinazione popolare, sono sempre stato più a mio agio come outsider. La street art rompe il confine mentale per cui l'arte è solo per chi possiede una cultura e va riverita, anzi la porta nelle vite di tutti i giorni».

Quando ha capito di voler vivere di questo?

«Fin da piccolo volevo essere un artista, ma non ho avuto una formazione specifica né mentori che potessero darmi fiducia. Quando ho avuto problemi personali che mi stavano facendo cadere in mille pezzi l'arte è stata un modo per darmi un po' di pace. Poi è arrivata dominare la mia vita».

Come concilia il lavoro con la vita privata?

«A essere onesti, non ho realmente una vita privata, quindi c'è davvero poco da bilanciare. Tutto ciò che faccio è avvolto nella mia arte: viaggi, esperienze e spraycanze, come le chiamo».

 

Negli ultimi anni vari brand si sono avvicinati agli street artist per operazioni di marketing. Cosa ne pensa?

«All'inizio della mia carriera ho fatto anch'io molto lavoro commerciale. Essendo senza formazione, venivo pagato per dipingere in modi di cui ancora non ero esperto. Oggi non ha più senso, dal momento che vedo nel mio stile un vero e proprio brand e associarlo con un'azienda potrebbe potenzialmente svalutarlo».

Quale città ha un posto speciale nel suo cuore?

«Los Angeles e alcune parti di Miami per le loro ampie strade e la loro architettura industriale. Ma le mie città preferite in assoluto sono San Francisco e Tokyo. Vorrei, però, fare più lavori di street art nel continente asiatico, in Corea del Sud, a Shanghai o Pechino, ho viaggiato poco da quelle parti».

Ma l'aspetto sociale rappresenta ancora l'anima della street art?

«Non per me. Ho deciso fin dall'inizio di non fare dichiarazioni socio-politiche. L'espressione estetica urbana che uso è stata coniata per far sapere a tutti esattamente cosa voleva essere il mio lavoro: bellezza nel paesaggio urbano. Non ce n'era molta all'epoca e a mio parere neanche oggi».

Da dove arriva l'ispirazione per i suoi ritratti femminili?

«Per molto tempo non l'ho saputo, immaginavo fosse dai vecchi maestri, dagli artisti rinascimentali. Posso osservare una linea di connessione da artisti come Aubrey Beardsley, Alphonse Mucha, fino a Patrick Nagel. Ma se dipingo donne asiatiche è solo perché ho avvertito una scarsità di rappresentazioni positive. Dal momento che avevo deciso che il mio lavoro non avrebbe oggettificato le donne, avere donne asiatiche come soggetti mi è sembrata una conseguenza logica».

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