Baryali, il rifugiato afgano e la raccolta fondi per un master a New York: «A 17 anni non avevo neanche un quaderno»

Baryali Waiz
di Sabrina Quartieri
7 Minuti di Lettura
Lunedì 25 Gennaio 2021, 11:32

Si trova a un passo dal suo più grande sogno: frequentare un master alla Columbia University di New York. Il traguardo è vicino per Baryali Waiz, rifugiato afgano a Roma, nonostante tra loro ci siano quasi 7mila chilometri di distanza. Dal prestigioso ateneo americano, infatti, sono arrivati l’ok all’ammissione e una borsa di studio per coprire parte delle spese. Ma mancano ancora 61mila dollari (circa 50mila euro). Per raccoglierli, Baryali sta cercando degli sponsor, ma la crisi economica dovuta alla pandemia da Covid-19 non aiuta. Nel frattempo, ha anche attivato una campagna di raccolta fondi sul sito di crowdfunding GoFundMe. L’ha chiamata “My dream was to have a notebook”, che in italiano si traduce con “Il mio sogno era avere un quaderno”. Un desiderio che fino all’età di 17 anni l’immigrato non ha mai potuto esaudire. In casa mancavano i soldi per i libri, come per le penne e i quaderni. La sua famiglia non aveva nemmeno il cibo a sufficienza per sfamarsi ogni giorno. Così, fin da piccolo, il rifugiato ha sempre dovuto lavorare, conservando però la speranza di riuscire prima o poi ad andare a scuola.

 

«Abbiamo vissuto per un periodo in Pakistan a Peshawar, per fuggire dalla guerra civile nel mio Paese e dalla furia dei mujahidin. Lì, passavo le giornate da solo per strada fino a tardi, a vendere acqua e succhi di frutta. Poi, una volta rientrati a Kabul, sono stato preso in una fabbrica di cartoni e subito dopo in un negozio di telefonini. Ricordo le scuole distrutte, la violenza e l’analfabetismo che dilagavano», spiega Baryali che oggi sembra diventato un po’ romano, per quella parlata trasteverina che viene fuori mentre ricostruisce il suo difficile trascorso. E nel farlo, nonostante il volto coperto dalla mascherina, l’immigrato riesce persino a sorridere. Come a dire che finalmente è sereno, grazie alla sua nuova vita piena di momenti che raccontano tutta un’altra storia. Prima delle parole, ne sono testimoni i dettagli indossati da lui con orgoglio: un giubbotto Barbour che si è regalato lavorando, perché ama il vintage; o il braccialetto blu con la scritta bianca dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite che lo ha sempre supportato da rifugiato (Baryali per lei raccoglie fondi, anche assieme a volti dello spettacolo come Fiorello e Mika).

La mascherina che porta è quella di Eggs, un ristorante di Trastevere dove l’afgano ha trovato una seconda famiglia, che gli offre anche ospitalità. Laura, la titolare, e Barbara, la chef, si comportano come una mamma e una zia. Baryali oggi ha 28 anni e non vede la sua vera famiglia da quando, 16enne, ha deciso di scappare da Kabul, per raggiungere l’Europa e iniziare una nuova vita, ripartendo dalla scuola. La sua fuga da clandestino è durata oltre un anno, scampando pericoli continui e affidandosi a trafficanti senza scrupoli. «Ho attraversato l’Afghanistan, il Pakistan, il Kurdistan iraniano e la Turchia in condizioni disumane, viaggiando tra le montagne e nel deserto di notte, sperando di non farmi acciuffare. Sono rimasto giorni senza cibo né acqua, e senza poter mai parlare. Sono stato malmenato quando ho provato a farlo. Mi sono spostato rinchiuso in container, nel portabagagli di mezzi di fortuna e ammassato con altri clandestini nei camion. Ma se volevo riuscire a salvarmi, non c’erano alternative. Questa consapevolezza mi ha dato il coraggio per non arrendermi», racconta Baryali. Il viaggio verso la Capitale ha avuto un lungo stop ad Atene, dove il giovane ha lavorato nei campi per 5 euro al giorno.

Di quel periodo ricorda l’unico momento di libertà: la visita al Partenone, che voleva vedere dal vivo. Poi l’afgano è finito dietro le sbarre per tre mesi. Era stato scoperto a prendere accordi con un trafficante per raggiungere l’Italia. In Grecia Baryali ha anche rischiato di morire. Si trovava sul gommone insieme ad altri clandestini molto vicino alla costa, quando «la polizia ci ha intercettato e intimato di tornare indietro. Ma nessuno di noi sapeva eseguire le manovre giuste per farlo e non potevo neanche tuffarmi e provare a scappare. Non ero capace di nuotare. Così, con le speed boat ci hanno riportato nelle acque internazionali, dove qualche ora dopo ci ha raccolto una nave militare», spiega Baryali. Sono trascorsi 11 anni da allora. Un tempo sufficiente a collezionare importanti traguardi. Oggi, questo caparbio rifugiato ha un permesso di soggiorno per asilo politico che, a Roma, gli consente di sentirsi a casa, grazie anche ai tanti benefattori incontrati sul suo cammino, da quando è arrivato. Dopo aver trascorso il primo mese per strada, trovando riparo la notte alla stazione Ostiense, è Save The Children a offrirgli ospitalità in un centro per minori.

Così Baryali impara l’italiano e si iscrive a scuola. Arriva fino a diplomarsi, poi comincia a lavorare.

La sua prima esperienza è al centro d’accoglienza Cara di Castelnuovo di Porto come mediatore culturale, dove stringe rapporti con i colleghi dell’Unhcr. Poi continua a occuparsi di richiedenti asilo, ma per la Croce Rossa; subito dopo finisce a fare l’educatore di minori non accompagnati in una struttura di Pietralata. «Il mio sogno però era laurearmi. Sarei stato il primo in famiglia a fare l’università», racconta l’immigrato, che decide di parlarne con un’amica insegnante alla John Cabot University di Trastevere. È lei a fissargli l’appuntamento con il Presidente dell’ateneo americano a Roma Franco Pavoncello, che gli aprirà la strada alla borsa di studio completa per il suo corso. È il 2016 quando iniziano le lezioni e nel 2020 arrivano due lauree: una in Scienze Politiche, l’altra in Scienze della Comunicazione. «Ad aiutarmi e a spesarmi per tutto, stanza, vitto e libri compresi, come per qualsiasi cosa di cui avessi necessità, è stato un signore iraniano che fa parte del Board of Trustees della John Cabot. Non l’ho mai incontrato. So che vive a Milano e lo ringrazio di cuore. Non smetterò mai di farlo», confessa Baryali. Ma il percorso di studi per lui pare non essere destinato a interrompersi: alcuni mesi fa il rifugiato fa partire la sua candidatura per un master in Negoziati e Risoluzione dei Conflitti alla Columbia University di New York.

L’obiettivo è specializzarsi per tornare a casa e dare un aiuto concreto alla sua famiglia e al suo Paese, contrastando l’analfabetismo e promuovendo l’emancipazione dei giovani e delle donne, oltre che l’identità nazionale. Il tentativo va a buon fine al primo colpo: il suo curriculum vitae e la sua storia convincono l’ateneo americano a dare l’ok all’ammissione con una borsa di studio parziale di 60mila dollari, da usare per tutta la durata del master: 24 mesi. Per coprire le spese del primo anno mancano 61mila dollari. Con il semestre iniziato già a gennaio, Baryali decide di comunicare alla Columbia University che non può frequentare per mancanza di soldi e si dimette per lasciare spazio a un altro candidato. Nel frattempo, fa la richiesta per una borsa di studio completa. «È destinata a 30 rifugiati in tutto il mondo – spiega l’afgano – e avrò i risultati a marzo. Ma la mia ricerca di sponsor e la campagna sulla piattaforma GoFundMe vanno avanti, perché se non la ottenessi, avrò bisogno dei 61mila dollari. Una volta riammesso, con quella cifra potrei iniziare a frequentare il prossimo semestre». Se riuscirà ad andare a New York, il rifugiato con la passione per lo studio farà di tutto per coprire le spese del secondo anno, magari lavorando proprio con la Columbia. E chissà che tutto questo non accada davvero. Il suo nome fa ben sperare: nella sua lingua natia, il pashto, Baryali significa successo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA