Pennacchi, quel giorno in redazione: «Sono il cane matto il vero autore è mia moglie»

Antonio Pennacchi al Messaggero con "Palude"
di Monica Forlivesi
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Mercoledì 4 Agosto 2021, 05:01 - Ultimo aggiornamento: 11:53

 Tutti parleranno dello scrittore, Latina conosce l'uomo. Antonio Pennacchi che si arrabbiava per un albero sradicato, per la chiusura di una fabbrica, per un'idea, che si sedeva con le sue gambe lunghe a parlare di letteratura per ore davanti alla libreria di Piermario De Dominicis, in via Armellini. Passavi di lì e li trovati intenti, concentrati, appassionati. Quando vinse il Premio Strega si lasciò andare, gli capitava raramente in pubblico, fu un'invasione di emozioni: il dolore per la morte del fratello, la gioia per l'arrivo della nipotina e la forza di una donna, sua moglie. «Fatemi andare da lei - disse appena sceso dal palco - è mia moglie il vero autore, tutti i miei lavori nascono dalla sua forza. Io sembro forte ma in realtà sono il cane matto. E' lei che mi incatena e mi dà la forza di lavorare». Ed è sotto gli occhi di sua moglie che ieri è morto, è lei che si è accorta che Antonio era al telefono ma aveva smesso di parlare, è lei che lo ha stretto per prima, che ha tentato di strapparlo alla morte con la forza di chi ha fuso la sua vita con la tua.
Antonio Pennacchi la sera dello Strega raccontò: «La sottomissione al demone della letteratura è arrivata tardi. Mi sono sempre sottratto. Ho cominciato a scrivere a 36 anni, tre mesi dopo la morte di mio padre. Se non avessi iniziato sarei dovuto rinascere». Era circondato dalle storie, le doveva cacciare, se glielo chiedevi come nascevano ti rispondeva una punta spazientito: «Come nascono? Ma io le devo cacciare via. Ne ho così tante intorno che le mando via. Ogni famiglia ha i suoi scheletri nell'armadio, dolori veri... tendiamo a nasconderli, invece bisogna tirarli fuori».
Lui era vero, al punto di essere a volte esagerato, anche burbero, non ha mai dimenticato da dove veniva, era lo scrittore-operaio, era uno che non passava inosservato e non voleva esserlo. Sembra di vederlo nel 1995 entrare in redazione con il suo secondo libro sottobraccio, Palude. Camicia a maniche corte, cravatta allargata e l'immancabile berretto con la visiera: racconta la sua storia, allora era praticamente sconosciuto, racconta del lavoro alla Fulgorcavi, della sua famiglia arrivata dal Veneto per bonificare l'Agro pontino, racconta della politica incontrata da giovanissimo e delle litigate con i suoi fratelli, loro di sinistra lui iscritto al Movimento sociale. E poi l'espulsione dei fascisti, l'adesione ai marxisti-leninisti, le contestazioni del Sessantotto. Era tutto questo Antonio Pennacchi, e molto di più. Uno che non te la mandava a dire. Dopo l'intervista su Palude si alzò e si riprese il libro: «Se lo vuoi te lo vai a comprà». Ma era anche quest'altro: quello che in preda dall'entusiasmo durante un comizio prese in braccio il candidato a sindaco di Latina del centro-sinistra, Maurizio Mansutti, senza pensare che è un omone alto, poco maneggevole, e così finirono per terra, Mansutti si rialzò, Pennacchi finì in ospedale. Una vita tra la fabbrica, l'impegno politico, la partecipazione alla vita della città, gli incontri e gli scontri. Di posizioni prese e abbandonate. Con una costante, l'amore per la parola, così, quando la Fulgrocavi lo mette in cassa integrazione lui si laurea in Lettere. Nel 94 il primo romanzo, Mammut, da quel momento non si è più fermato. Fino a ieri. Ciao Antonio, Latina saluta lo scrittore, ma saluta soprattutto l'uomo.
Monica Forlivesi
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