Genitori, a educare s'impara

Genitori, a educare s'impara
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Domenica 26 Ottobre 2014, 05:56
IL CASO
Una laurea in genitorialità, purtroppo o per fortuna, non esiste. Ma se ci fosse le famiglie italiane dovrebbero pensare di frequentarla perché a fronte di una potenza dei numeri, 24 milioni e 512mila nuclei familiari, emerge una debolezza, anche questa confermata dalle statistiche, dei risultati del nostro sistema educativo domestico. Possiamo partire da un primo punto critico, e cioè i genitori iper protettivi ed, a loro modo, iper presenti. Soltanto il 34 per cento dei ragazzi italiani che frequentano le scuole medie inferiori vanno a scuola da soli e non sono accompagnati da un genitore: in Germania la percentuale è il doppio, 68 per cento, e in Inghilterra schizza al 78 per cento. Quel gesto la dice lunga su quanto stiamo addosso ai figli e la carenza di mezzi pubblici come giustificazione del papà o della mamma in versione autisti full time semplicemente non regge.
L'EQUILIBRIO
«Uno dei compiti più difficili per un genitore è quello di creare un equilibrio tra la sua presenza e l'autonomia dei figli. Solo così i bambini diventano ragazzi e poi adulti: e noi purtroppo tendiamo a trascurare questo obiettivo» spiega Margherita Lanz, docente all'Università Cattolica e autrice del fortunato libro “Mi fido di te, favorire l'autonomia dei figli” (edizioni San Paolo). Anche dopo l'orario scolastico i figli continuano ad essere sorvegliati speciali da parte dei genitori, pronti a imbottire le giornate con impegni extra, dallo sport (sempre con accompagnamento incluso) ad altre attività. E perfino il passaggio all'università non rompe il cordone ombelicale, con il genitore che indossa gli abiti del tutor per indirizzare i figli nel dedalo delle scelte tra le varie facoltà e i diversi indirizzi di studio. Dunque, se oggi ci sono 7 milioni di giovani italiani (pari al 68 per cento dei non sposati), tra i 18 e i 34 anni, che vivono ancora con i genitori, la causa non è soltanto economica, mancanza di soldi per prendere una casa, ma risale anche a un tipo di educazione impastata di un'ingombrante presenza di mamma e papà.
Un secondo segnale di un modello che non funziona arriva dai soldi. Come paese siamo sicuramente più in crisi della Germania e della Gran Bretagna, e le nostre famiglie sono più colpite dagli effetti a catena di una recessione in corso da 5 anni. Eppure siamo i più generosi con la paghetta ai figli. In Italia è pari a 832 euro l'anno, rispetto ai 600 euro dei tedeschi, ai 380 euro degli inglesi ed ai 240 euro dei francesi. Come dire che dal 2008 i genitori si sono impoveriti, mentre i figli si sono arricchiti restando così al riparo dal declino generale.
I SEGNALI
«Anche questo è un segnale di una famiglia che interferisce molto e tende a proteggere» dice Elisabetta Ruspini, docente all'università Bicocca di Milano e autrice del saggio “Educare al denaro” (edizioni Franco Angeli). Una tendenza confermata dallo svuotamento della funzione del padre, molto spesso trasformato in un amicone, un compagno di giochi e di avventure, un pari grado, spogliato della sua autorevolezza, e dall'ancora enorme quantità di lavoro domestico che la mamme svolgono in casa, pari a 5 ore e 20 minuti al giorno.
Così mentre il cinema e la letteratura ci continuano a raccontare i drammi della famiglia, come nel caso del duro e pesante film “Hungry hearts” di Saverio Costanzo presentato al Festival di Venezia, nella realtà l'educazione familiare italiana è andata sempre più ripiegando verso forme di sulfurea convivenza, nelle quali il conflitto è stato cancellato. La generazione del ‘68, quella dei figli che hanno contestato i padri anche per prendere il posto in termini di potere, una volta diventata famiglia si è trasformata. Ed ha applicato, anche nelle forme spurie delle famiglie allargate, un modello di educazione senza scontri, senza il fuoco pedagogico del litigio, come se fosse possibile vivere in una sorta di oasi protetta, da spot del Mulino Bianco. E anche questo è stato un errore. L'educazione buonista, con figli in apparenza sereni e pacifici, è ormai messa in discussione anche sul piano pedagogico. Daniele Novara, fondatore del Centro psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti di Piacenza, ha scritto un libro, diventato un best seller, dal titolo molto significativo: “Litigare fa bene” (edizioni Rizzoli). Partendo da una netta distinzione tra conflitto (utile a crescere) e violenza (da contrastare senza se e senza ma), Novara propone, in tutte le fasi della crescita, un modello educativo nel quale il litigio familiare sia vissuto come una “sana abitudine”. Un percorso evolutivo, di autonomia, di riconoscimento dell'altro e della diversità. E anche uno stimolo ad affermare, senza essere schiacciati dalla rete protettiva di mamma e papà, la propria personalità. Un'altra leva che i genitori italiani dovrebbero considerare quando provano a trovare il giusto metodo in quello che resta il mestiere più difficile del mondo.
Antonio Galdo
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