Falcone, il figlio del caposcorta morto a Capaci: «Orgoglioso di papà, era schierato dalla parte giusta»

«Mio padre mi ha voluto chiamare come lui, lo ammirava tanto»

Falcone, parla il figlio del caposcorta morto a Capaci: «Orgoglioso di papà, era schierato dalla parte giusta»
di Valeria Di Corrado
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Domenica 22 Maggio 2022, 19:36

«A distanza di 30 anni è cambiato tutto. Ormai Palermo è casa nostra, o meglio, cosa nostra. I figli di Riina sono andati al Nord o in Francia. La gente si alza in piedi quando sa che sono un Montinaro. A volte il barista mi dice: non ti preoccupare, il caffè l'ha pagato tuo padre». Quando l'agente Antonio Montinaro, caposcorta di Falcone, fu ucciso a Capaci, Giovanni aveva solo 21 mesi.
 

Cosa portò i suoi genitori a darle il nome di Falcone?
«Fu una decisione di mio padre. Lui era innamorato della figura del dottore. Mi colpisce che fece questa scelta nel '90, quando ancora Falcone era attaccato e criticato. Ciò sottolinea una devozione all'antimafia prima che l'antimafia esistesse. Mio padre si schierò quando gli altri non lo facevano».
Distingueva la paura, un sentimento comprensibile, dalla vigliaccheria.
«Sì, lo diceva sempre: ho paura, ma non sono vigliacco. Ha fatto quello che prevedeva il suo giuramento. Era una persona di parola e di principi. Per lo stesso motivo ho deciso di non diventare poliziotto. È un mestiere che richiede enorme abnegazione. Ci si spoglia di tutto quello che è personale: fede, credo politico. E io non intendevo spogliarmi in primis del mio ruolo di Montinaro. Voglio tutelare la memoria di mio padre e, per farlo, devo essere un civile».
Com'è cambiata la sua Sicilia in questi 30 anni?
«Prima e dopo la strage, Palermo era militarizzata dalla polizia. Oggi, il 23 maggio, c'è un'occupazione culturale: il fatto che scendiamo in piazza, che lei mi intervisti, che io possa dire al bar: la mafia è una montagna di merda».
Cosa prevale tra la rabbia di aver perso un padre e l'orgoglio per com'è morto?
«Prevale l'orgoglio. Non è morto per una malattia o un incidente, ha scelto come vivere in un periodo e in un territorio in cui, quando si sceglieva di vivere a testa alta, tecnicamente si sceglieva anche come morire. Mio padre è stato disposto a sacrificarsi in virtù di un cambiamento, e io non posso che rispettare la sua scelta. Mi reputo comunque fortunato. Non cambierei nulla della mia vita, né della sua. Se n'è andato con una dignità che hanno pochi uomini. È giusto festeggiarlo, come quando si è felici di avere avuto un nonno partigiano. Perché ci si rende conto che si è schierato dalla parte giusta. È un privilegio avere il sangue di qualcuno che ha migliorato questo Paese. Non ha prezzo».
Cosa l'ha indignata nella scarcerazione di Brusca? Lo prevedeva la legge sui collaboratori.
«L'indignazione sta nel fatto che, da un lato, si giustifica la scarcerazione perché prevista da leggi pensate e sviluppate da persone illustri come Falcone e Borsellino. Ma queste stesse persone hanno pensato anche il carcere duro che oggi viene messo in discussione».
Le mafie si sono evolute e trasferite, ora agiscono sottotraccia. È più pericoloso di prima?
«Sì, perché il cittadino non le vede, non sente sparare o esplodere bombe e si illude che il fenomeno sia meno nocivo.

Ormai si parla di enormi capitali, fondi europei. Si sono dovuti trasformare. Questa gente negli anni 80 si era illusa di poter fare la guerra allo Stato. Pensava che pochi magistrati o reparti scorta con ragazzini di 20 anni non fossero un ostacolo. Ma la dimostrazione del loro coraggio non sta tanto nel 23 maggio, quanto nel 19 luglio. Avevano la consapevolezza che sarebbero morti e hanno comunque continuato».

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