Operazione Scarface a Latina, il ruolo dei tre nuovi pentiti decisivo per ricostruire gli affari del clan

Operazione Scarface a Latina, il ruolo dei tre nuovi pentiti decisivo per ricostruire gli affari del clan
di Elena Ganelli
3 Minuti di Lettura
Giovedì 28 Ottobre 2021, 05:02 - Ultimo aggiornamento: 10:26

Ancora una volta i collaboratori di giustizia hanno svolto un ruolo chiave nella ricostruzione delle modalità operative del gruppo criminale guidato da Giuseppe Di Silvio detto Romolo azzerato con l'operazione Scarface'. In questo caso i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Roma hanno potuto contare sulle dichiarazioni dei tre nuovi pentiti: Maurizio Zuppardo, Emilio Pietrobono e Andrea Pradissitto. Quest'ultimo in particolare ha offerto un contributo utile ad accrescere il quadro indiziario sotto il profilo della sussistenza del vincolo associativo, forte del suo legame di parentela con il clan essendo genero di Ferdinando Ciarelli detto Furt e Rosaria Di Silvio a sua volta sorella di Armando Di Silvio detto Lallà. Pradissitto «ha fornito con conoscenza diretta dei fatti, importanti elementi di prova sulle consorterie rom e su alcuni fatti avvenuti nella cosiddetta Guerra criminale' scrive il gip Rosalba Liso - tra i quali assume primaria importanza l'omicidio di Massimiliano Moro in relazione al quale all'epoca non vennero accertate responsabilità per mandanti e esecutori materiali».

Dai verbali emerge come il neo pentito abbia deciso di collaborare «perché voglio una vita normale per me, mio figlio e mia moglie. Ho partecipato sia alle riunioni preliminari che all'esecuzione dell'omicidio Moro» ha raccontato ai magistrati antimafia entrando nel dettaglio delle riunioni tenutesi in quel 2010 quando a Latina si è consumato lo scontro tra clan rom e un gruppo criminale non rom. Dal collaboratore sono arrivate conferme sull'organizzazione del gruppo. «La famiglia Di Silvio costituisce un vero e proprio clan a conduzione familiare ha spiegato riconducibile a Giuseppe detto Romolo e composto dal nipote Costantino detto Patatone, i figli Patatino e Prosciutto e il genero Fabio Di Stefano». E ancora: «È un clan che ha grande disponibilità di armi e dedita in questo momento allo spaccio di sostanze stupefacenti».


POTENZA DI FUOCO
E di armi ha parlato con i magistrati anche il pentito Emilio Pietrobono precisando che Fabio Di Stefano e i Di Silvio dispongono «di almeno 8 armi da sparo» e che Alessandro Renzi detto il Cobra a Priverno tiene sotterrato un vero e proprio arsenale composto da pistole, fucili, esplosivi, detonatori elettrici a miccia lenta e a miccia veloce. E c'è anche Maurizio Zuppardo, l'altro collaboratore, a confermare che Patatone attualmente in carcere per l'omicidio di Fabio Buonamano aveva lasciato alla famiglia numerose armi che per un periodo venivano nascoste nella stalla. Il pentito ha rivelato come in passato fosse stato compiuto un furto all'interno della villa di un carabiniere «furto organizzato dal proprietario del bar del centro Morbella. Tale personaggio, essendo indebitato con gli zingari per la cocaina acquistata e non pagata, aveva fornito indicazioni per mettere a segno il colpo materialmente compiuto da Patatone e Antonio Di Silvio Sapurò. In quell'occasione vennero sottratte ha raccontato Zuppardo moltissime armi e orologi di cui il carabiniere faceva collezione». In totale 14 pistole di vario calibro rimaste nella disponibilità del clan in quanto mai ritrovate. Ed è sempre da questo collaboratore che è stata confermata la struttura piramidale del gruppo quando Giuseppe detto Romolo, dopo la morte di Ferdinando il Bello, ha assunto il ruolo di capofamiglia con il compito di autorizzare ogni azione criminosa che i singoli componenti volessero compiere oltre che organizzare il mantenimento dei detenuti fissando la quota a carico di ciascuno e indicando la suddivisione delle piazze di spaccio. Il tutto con riunioni alla fine delle quali era sempre il capofamiglia a decidere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA