Youth, Sorrentino e la “grande vecchiezza”: eccessi di leggerezza e pezzi di bravura

Youth, Sorrentino e la “grande vecchiezza”: eccessi di leggerezza e pezzi di bravura
di Fabio Ferzetti
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Mercoledì 20 Maggio 2015, 23:51 - Ultimo aggiornamento: 21 Maggio, 00:48
dal nostro inviato

CANNES Due grandi vecchi per un film sul tempo che passa mentre la giovinezza (degli altri s’intende) ci assedia senza riguardi. Due grandi attori, Michael Caine e Harvey Keitel, per una riflessione giocosa sull’arte, la creazione, la bellezza (più seccature annesse, tipo la celebrità e i suoi obblighi). Un film così aperto e accogliente che riassume e rielabora tutto ciò che Sorrentino ha già fatto, ma in forma addolcita e semplificata. Come se il regista de La grande bellezza e Le conseguenze dell’amore volesse rendere il suo cinema più accessibile, meno inquietante, senza rinunciare ai tratti che lo rendono ormai così riconoscibile, seducente e, osiamo questa parola ambigua, piacevole.

Naturalmente non è un delitto piacere, ma a forza di smussare le punte Youth disperde buona parte del suo potenziale facendo dei suoi due protagonisti e vecchi amici, il compositore e direttore d’orchestra Michael Caine e il regista Harvey Keitel, una specie di versione da festival del vecchio I ragazzi irresistibili con Walter Matthau e George Burns. Con molte idee in più naturalmente, e una cornice fatta apposta per catturarci.


Come in Fellini 8 e 1/2 siamo infatti alle terme e intorno ai due artisti palpita tutta una fauna di tipi strambi, monaci che levitano, bambini sapienti, campioni in ritiro, vecchie cantanti, coppie decrepite e silenti. E via divagando perché a essere essenziali sono l’amicizia tra i due eroi, il complicato rapporto fra Caine e sua figlia (la sempre deliziosa Rachel Weisz), la di lei infelicità amorosa, e per riflesso la vita intima di quel padre così sfuggente che lei stessa lo conosce appena.



Anche se il sottotesto drammatico è così abilmente celato dalle stravaganze da risultare alla fine incongruo se non irrilevante. Il meglio è negli immancabili pezzi di bravura, nell’incubo - videoclip con cui il regista liquida le pop star e le loro mitologie, nel gusto per apparizioni e epifanie che costella il film di incontri inattesi (la trionfale Madalina Ghenea, divinità pagana, o quel concerto per mucche e campanacci). Ma con tutte le sue idee, le battute, la filosofia spicciola, i piccoli e grandi colpi di scenaYouth non fuga mai un vago senso di inconcludenza e gratuità. «La leggerezza è una tentazione ma può anche diventare una perversione», ironizza Caine. Appunto.

Nessuna leggerezza invece, ma il folle tentativo di comprimere in un solo film 25 anni di cambiamenti, in uno dei lavori più radicali in gara, Mountains may depart di Jia Zhang-ke, il grande regista di Still life (leone d’oro a Venezia). Si parte nel 1999, si finisce nel 2025 in Australia, seguendo la bravissima Zhao Tao (già protagonista di Io sono li) e i suoi due pretendenti nella sperduta Fenyang, città natale del regista.

Nel frattempo il paese affronta un’accelerazione economica e sociale vertiginosa, i poveri diventano ricchi (non tutti), qualcuno continua a lavorare in miniera, qualcuno emigra in Australia, i vecchi genitori e le consuetudini millenarie che incarnavano scompaiono. Nel lungo epilogo australiano il figlio della coppia, cui è stato imposto l’assurdo nome di Dollar, rompe col padre, con cui non può nemmeno comunicare visto che uno non ha mai imparato l’inglese e l’altro non sa più il cinese. Il tutto raccontato con un’adesione fisica e sentimentale a corpi, paesaggi, gesti, danze, di grande impatto emotivo. La Cina non è mai stata così vicina. Purtroppo.
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