CANNES Due grandi vecchi per un film sul tempo che passa mentre la giovinezza (degli altri s’intende) ci assedia senza riguardi. Due grandi attori, Michael Caine e Harvey Keitel, per una riflessione giocosa sull’arte, la creazione, la bellezza (più seccature annesse, tipo la celebrità e i suoi obblighi). Un film così aperto e accogliente che riassume e rielabora tutto ciò che Sorrentino ha già fatto, ma in forma addolcita e semplificata. Come se il regista de
Naturalmente non è un delitto piacere, ma a forza di smussare le punte
Come in
Anche se il sottotesto drammatico è così abilmente celato dalle stravaganze da risultare alla fine incongruo se non irrilevante. Il meglio è negli immancabili pezzi di bravura, nell’incubo - videoclip con cui il regista liquida le pop star e le loro mitologie, nel gusto per apparizioni e epifanie che costella il film di incontri inattesi (la trionfale Madalina Ghenea, divinità pagana, o quel concerto per mucche e campanacci). Ma con tutte le sue idee, le battute, la filosofia spicciola, i piccoli e grandi colpi di scena
Nessuna leggerezza invece, ma il folle tentativo di comprimere in un solo film 25 anni di cambiamenti, in uno dei lavori più radicali in gara,
Nel frattempo il paese affronta un’accelerazione economica e sociale vertiginosa, i poveri diventano ricchi (non tutti), qualcuno continua a lavorare in miniera, qualcuno emigra in Australia, i vecchi genitori e le consuetudini millenarie che incarnavano scompaiono. Nel lungo epilogo australiano il figlio della coppia, cui è stato imposto l’assurdo nome di Dollar, rompe col padre, con cui non può nemmeno comunicare visto che uno non ha mai imparato l’inglese e l’altro non sa più il cinese. Il tutto raccontato con un’adesione fisica e sentimentale a corpi, paesaggi, gesti, danze, di grande impatto emotivo. La Cina non è mai stata così vicina. Purtroppo.
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