Totò, principe senza eredi della commedia umana

Totò, principe senza eredi della commedia umana
di Malcom Pagani
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Martedì 28 Marzo 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 30 Marzo, 17:12
Quando non fu più in grado di difendere tutta la solitudine fieramente sventolata per decenni: «Mangio più volentieri con un cane che con un uomo» Antonio De Curtis dovette arrendersi all’affetto. 15 aprile 1967, giorno del funerale, in piazza scese un intero Maracanà. Trentamila persone a Roma, centocinquantamila a Napoli, solo 48 ore più tardi. Il feretro oscillante, la bombetta in precario equilibrio sulla bara, la gente con il naso all’insù ad aspettare un segno, a inseguire un sogno. Quel giorno il sangue di San Gennaro, proprio come il legame dell’Italia con Totò, non si sciolse. E il miracolo, a cinquant’anni dalla dipartita del principe della risata, ha qualcosa di regale. Senza eredi, senza epigoni e senza discendenti, Totò ha fatto scuola dimenticando però di rivelare agli alunni il segreto che permettesse di veder tramandata la lezione. Abbiamo avuto interpreti grandissimi dell’italianità sullo schermo e sul palco (Gassman, Mastroianni, Sordi, Troisi), ma nessuno che come Totò ricordasse Chaplin.

L’OSTRACISMO
Un Chaplin di retroguardia, un parente considerato a lungo e con pieno torto, povero di talento e contenuti. Dopo, a lacrime già asciugate, la riconsiderazione critica è più facile e in vita, come in patria, profeti non si è mai. Quindi in attesa delle celebrazioni previste per omaggiarlo, ricordare l’accanimento di una certa critica, la stessa che considerava Sergio Leone un regista di serie B e che all’attore imputava troppi film “sciatti e alimentari”, non è inutile. Il Totò che si spense a 69 anni nella sua casa romana di Via Monti Parioli, era stanco, malato e avvilito. Poche ore prima di andarsene, aveva confessato al suo autista, Carlo Cafiero di sentirsi: «Una vera schifezza». Sull’afflizione pesava anche un bilancio ferocemente autocritico, la sensazione di non aver sfruttato fino in fondo il proprio talento, una certa misantropia di fondo: «A me non piace andare nei night, non mi è mai piaciuto. Quando vedo quel divertimento falso non posso fare a meno di pensare che dietro a ciascuna di quelle persone si nasconda un dramma: il pianista magari ha le scarpe rotte, l’industriale ha le cambiali che scadono, l’entraineuse ha il figlio ammalato». Non c’è grande spirito comico che non abbia avuto indulgenza per la malinconia e non c’è grandissimo attore (basti pensare al Gassman disperato degli ultimi anni, chiuso in camera a graffiare la porta dellapropria stanza) che per dirla con Bergman, non abbia fatto i conti con la depressione, con l’ora del lupo, con il buio che all’improvviso viene a farti visita. Ma con Totò, la mancata aderenza tra messa in scena e vita vera, creava un corto circuito.

UN CARATTERE UNICO
C’era scetticismo, pigrizia, consapevolezza profonda e sorprendente del peso dell’esistenza. Anche pigrizia, forse: «Viaggiare? Che m’importa di viaggiare?- disse a Oriana Fallaci- un po’ più bianchi, un po’ più neri, un po’ più freddi, un po’ più caldi, gli uomini sono tutti uguali, i caporali sono tutti uguali».In mancanza di uomini maiuscoli, meglio i suoi duecentoventi cani da sfamare. In assenza di passione per la velocità, meglio la lentezza: «Io ho l’automobile, ma ho un autista pieno di figli: così pensa alla pelle e non corre. Andiamo pianissimo, non superiamo mai i 40 all’ora, non prendiamo mai l’autostrada. A me piacerebbe avere una carrozza, un cavallo: per dargli lo zuccherino...» Perché Totò in fondo era questo. Un buono e un puro a cavallo di un’epoca che iniziava a diventare molto cattiva. Un genio che raccontava la propria epoca e a quell’epoca, era totalmente estraneo.

SOBRIETÀ
Non gli piacevano le ostentazioni (meglio le invenzioni, anche quella molto dibattuta sulla veridicità dei natali nobiliari) e men che mai apprezzava la protervia: «Caporali sono quelli che vogliono essere capi. C’è un partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l’adulazione, i ringraziamenti...». Chissà cosa avrebbe detto oggi, Totò. Adesso che nessuno osa più mettere in discussione la luce abbagliante delle sue smorfie, l’unanimità si confonde con la melassa e neanche i filosofi dell’inscindibilità tra privato e politico del personaggio pubblico, si azzarderebbero mai a rinfacciargli- forse per sospetto di anacronismo- la frase pronunciata di fronte alla figlia Liliana nell’imminenza dell’addio: «Ricordatevi che sono Cattolico, Apostolico e Romano». Quando gli domandarono se si apprezzasse,se si riconoscesse un ruolo, fu definitivo: «Totò mi sta antipatico. Quando mi vedo, il che capita assai raramente perché ho sempre detestato guardarmi allo specchio o sullo schermo, penso: Gesù, quanto è antipatico, quello”. Mentiva, ma anche se avesse detto il vero, non gli avrebbe creduto nessuno. 
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