Steve Hanke: «In economia si torna all’era Reagan ma questa volta manca l’ottimismo»

Steve Hanke: «In economia si torna all’era Reagan ma questa volta manca l’ottimismo»
di Anna Guaita
4 Minuti di Lettura
Martedì 15 Novembre 2016, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 12:31
ORAMAI è diventato uno dei luoghi comuni di queste elezioni: Donald Trump riporterà a Washington la reaganomics. Ma è proprio vero? Cosa c’è nel suo programma economico che rimane fedele alla deregulation reaganiana? Il Messaggero lo ha chiesto a qualcuno che di reaganomics se ne intende, quel professor Steve Hanke oggi docente di Economia applicata alla Johns Hopkins University di Baltimore, che nel 1981 era senior economist nel “Council of economic advisers” della Casa Bianca. La reaganomics, insomma, il professor Hanke ha contribuito a scriverla.
Professor Hanke, Reaganomics o no?
«Vorrei chiarire che gli elettori lo sapevano ben prima di votare che cosa fosse la reaganomics. Presentammo un documento dal titolo ‘’America’s New Beginning: A Program for Economic Recovery”. Erano 180 pagine di proposte dettagliate, molte delle quali poi l’Amministrazione Reagan provò con successo. Quanto a Donald Trump, non sappiamo con certezza i suoi programmi, li conosciamo solo a grandi linee. E i punti su cui si distanzia dalla tradizione reaganiana sono molto pesanti. Da un canto abbiamo l’impegno di realizzare tagli delle tasse, finanziare investimenti e avviare la deregolamentazione. Dall’altra abbiamo la promessa di esercitare il protezionismo sul fronte del commercio e di scontrarsi con la Cina sulla questione monetaria». 
Non le pare possibile che Trump abbia assunto toni bellicosi contro la Cina per motivi elettorali, e che li stempererà da presidente?
«Sono convinto che ci creda per davvero. Il suo consigliere economico dopotutto è Peter Navarro (un economista che vede nella Cina una minaccia mortale per gli Usa, ndr). Ma la proposta di bollare la Cina come manipolatrice di valuta non è basata su dati economici solidi. La pretesa che la Cina rafforzi lo yuan può rivelarsi un errore come lo fu quando l’Occidente pretese che il Giappone rafforzasse lo yen. Si ottenne solo che lo yen diventasse la più forte valuta del mondo, e si paralizzò l’economia giapponese che per un’intera generazione è rimasta statica. E comunque le esportazioni del Giappone continuarono, e il mondo rimase pieno di vetture giapponesi».
E se succedesse, l’offensiva contro la Cina?
«La Cina reagirebbe con forza».
A parte i dubbi sulla politica commerciale-valutaria, come giudica il resto del programma trumpiano?
«Intanto diciamo che non sappiamo nulla con assoluta chiarezza. Ma possiamo sentirci abbastanza sicuri che ci sarà una marcia indietro nel trend delle regolamentazioni bancarie, un deciso taglio ai regolamenti che rallentano l’imprenditoria, e facilitazioni fiscali verso le aziende anche offrendo loro una tassa una tantum di un massimo del 10 per cento per il rientro dei capitali parcheggiati all’estero. E poi c’è la promessa di investimenti: direi che siamo in presenza di un progetto di economia “supply side”. Manca l’ottimismo che Reagan usava come biglietto da visita. L’ottimismo è necessario per rilanciare l’economia, invece Trump ha basato tutto il suo programma sul pessimismo, sul principio che tutto va male, e solo lui può salvare il Paese. A un certo punto deve riuscire a cambiare pagina e comunicare ottimismo. Sono curioso di vedere come farà».
Dunque siamo alla vigilia di una nuova stagione di deregulation?
«Sì, questo mi sembra certo. Il numero di ostacoli posti sulla strada delle imprese è stato un peso sulla crescita. Questi ostacoli sono stati adottati come strumenti nella lotta contro il capitale, e sarebbero stati salvaguardati da Hillary Clinton, così come Bernie Sanders. Adesso possiamo dire che la guerra contro il capitale finisce. I mercati lo hanno capito nell’arco di sei ore dopo l’elezione di Trump.
Gli Usa non stanno male: l’economia cresce, i posti di lavoro pure, anche i salari crescono. Come può parlare di una guerra al capitale?
«Gli investimenti privati negli Usa sono molto diminuiti, e per questo la produttività è bassa: ci vuole più capitale privato per avere più produttività. Questo trend al ribasso è dettato da un fattore che chiamo “regime uncertainty”, l’incertezza che gli investitori avvertono davanti alla possibilità che nuove regole vengano di colpo adottate. Un investitore guarda al futuro e teme che ci saranno nuovi ostacoli sulla strada della sua impresa, e sceglie di non investire. È anche per questo motivo che abbiamo enormi quantità di capitali che aspettano di essere investiti. Trump potrebbe dare loro la certezza che aspettano, semplicemente cancellando molti dei decreti che Obama ha firmato in serie». 
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA