Stefania Sandrelli: «Mastroianni è l'unico che non mi ha corteggiato. Il più molesto? Depardieu»

Stefania Sandrelli: «Mastroianni è l'unico che non mi ha corteggiato. Il più molesto? Depardieu»
di Malcom Pagani
12 Minuti di Lettura
Domenica 11 Giugno 2017, 00:04 - Ultimo aggiornamento: 18 Giugno, 16:44

Lei li conosceva bene: «Gli uomini non sanno aspettare, a volte sono degli animaletti, vanno subito al sodo. Li ho capiti presto e li ho affrontati con l’ironia, l’unico antidoto al dolore che conosca, la sola pozione che guarisca davvero». Stefania Sandrelli ha trovato l’alchimia giusta dando retta a se stessa: «Se l’esperimento non mi garbava, mi davo alla macchia, sul set e nella vita». Distinguere i due ambiti, per un’attrice che tiene David e Leoni d’oro confusi tra i libri e dei suoi 71 anni compiuti da una settimana, ne ha trascorsi 56 tra luci e trucco, non è semplice: «Il cinema ha il potere di congelare le cose, poi ovviamente il tempo corre e ci ritroviamo con i capelli bianchi o con i denti finti, ma non ho rimpianti e non credo nella nostalgia. Non posso permettermela». 

Perché? 
«Perché sono curiosa come una scimmia e vorrei campare duecent’anni per vedere come va a finire». 

E come va a finire? 
«Posso dirle come è andata fino ad ora. Mi sono divertita molto e ho attraversato un mondo in cui c’erano ancora gli esseri umani e non solo le formiche impazzite». 

Lei ha esordito sul set a 15 anni. 
«Non ho mai programmato la mia carriera a tavolino, né ho cercato di replicare un successo in base alla convenienza del momento. Nelle mie scelte ho sempre fatto prevalere l’istinto e le cose che non volevo fare, non le ho fatte». 

Cosa rappresentava il cinema nell’adolescenza? 
«Un posto magico in cui sedersi in poltrona e farsi rapire. Con Sergio, mio fratello maggiore, vedevo anche due film al giorno. Sergio era un pianista straordinario, un musicomane che avrebbe potuto lavorare con Benedetto Michelangeli. Facevamo dei filmini amatoriali sulle colline versiliane con la carta stagnola e le spade di cartone. Li ho ritrovati da poco in una scatola impolverata, è stato un colpo al cuore». 

Il primo provino fu un colpo al cuore? 
«Fu una casualità. Un giorno della primavera del ’61 era passato davanti a casa Paolo Costa, un fotografo di Le Ore, una rivista che all’epoca poteva gareggiare per un premio di castità. Mi aveva vista, domandato se potessimo fare qualche scatto e mi ero ritrovata in posa sull’asfalto, con una gonna scozzese e un maglioncino azzurro. Quelle foto erano finite non so come nelle mani di Pietro Germi che mi aveva fatta contattare da Filippo Fortini, un agente grassoccio, un omino delizioso con gli occhi piccoli e dolci. Mi convocò a Roma, in un consesso di decine di aspiranti. Presi il treno senza particolare emozione. La cosa peggiore che potesse capitarmi era il rifiutato, ma non l’avrei vissuto come una sconfitta. Viareggio era il mio regno. Ci stavo come un pascià». 

Germi invece la prese e le affidò un ruolo in “Divorzio all’italiana”. 
«Mi prese con i tempi del cinema, tempi che si dilatavano per mesi e io che ormai ci avevo preso gusto accettai altri due piccoli ingaggi, con Sequi in “Gioventù di notte” e con Salce ne “Il Federale”. Germi si incazzò come una iena. «Hai già fatto il provino per me- gridava- non puoi recitare per gli altri». Germi sapeva arrabbiarsi. Urlava, spaccava i sigari, mangiava da solo, era un vero orso. Ma poi, vivendo l’esperienza del cinema in maniera totalizzante, sapeva anche come trasformarsi. Dietro la macchina da presa io l’ho visto persino cantare». 

Avevate un rapporto difficile? 
«Lo adoravo. È stato il mio pigmalione, mi ha insegnato tutto, mi ha trasmesso l’amore per il cinema, mi ha protetta, anche. Nella piazza di Sciacca di “Divorzio all’italiana”, con la folla che mi urlava “buttana” e mi metteva le mani sulle tette e sul culo mentre camminavo tra due ali di folla, ero profondamente a disagio. Glielo dissi: “Non c’è bisogno che mi palpino per restituire verità alla scena, sto soffrendo”. Lui capì. E fece un cazziatone memorabile rivolto alle comparse».
 
Rigiraste quella scena? 
«Quella e tantissime altre perché Germi era un perfezionista. Una volta dovevo fuggire dalla folla e mi fece ripetere la scena una decina di volte. Avevo l’acido lattico nella gambe: “Mi scusi- lo pregai, fermiamoci, non ce la faccio più”. Ma che mi abbia dato uno schiaffo è assolutamente falso, con il caratterino che avevo glielo avrei restituito». 

A Germi dava del lei? 
«Credevo che gli avrei dato del “tu” nel momento in cui avessi sentito di meritarlo. Non capitò mai». 

Germi le metteva soggezione? 
«Non avevo ancora idea di cosa significasse professionismo. Ero immersa in una naïveté che nelle pause mi faceva assalire negozi e gelaterie. Quando non mi trovava, Pietro si infuriava. Affrontavo le sue sfuriate con calma olimpica, minacciandolo di andarmene: “Sono inesperta, quindi se lei riesce a venire verso di me, io provo a venire verso di lei, altrimenti a tornare a Viareggio impiego un minuto”. Se avessi lasciato il cinema, mia madre sarebbe stata felice». 

Come mai? 
«Era di Pistoia, mamma. Una donna straordinaria rimasta vedova troppo presto, abituata a tenere tutte le esigenze familiari insieme e a far di conto. I miei conti con il cinema non le tornavano. Con il suo accento alla Benigni mi arringava un giorno sì e l’altro pure: “Oh Stefanina, ma tu sei proprio sicura di voler fare l’attrice?”. Le tornavo a casa a pezzettini e in più non guadagnavo una lira. Ci rimettevo. Quello che mancava lo implementava lei».
 
I soldi sono stati importanti? 
«Sono stati importanti per essere liberi di scegliere, ma non li ho mai contati. Siamo attori, siamo zingari, siamo artisti disordinati. Non siamo contabili. Tantomeno in amore. Se vedevo all’orizzonte l’ipotesi di un fidanzato ricco, non so perché, cambiavo strada. Quando mi innamorai di Niki Pende, che era figlio di un grandissimo scienziato, ero consapevole dei suoi patrimoni». 

E quindi? 
«Quindi prima di sposarlo pretesi la separazione dei beni».
 
Tra voi finì presto. 
«Avrebbe potuto finire anche prima, litigavamo tutti i santi giorni. Andare avanti non era più possibile. Ci amavamo da morire, ma tra noi finiva sempre tutto in vacca. Andare avanti non era più possibile». 

Lei ha fatto un pezzo di strada importante con alcuni dei più grandi attori italiani. 
«I miei preferiti erano Mastroianni e Manfredi. A Marcello invidiavo la calma, la “sciallezza” come dicono a Roma». 

La sciallezza? 
«Io ero sempre eccitata e lui dormiva al trucco. Girava una scena impegnativa e poi come se nulla fosse si ritirava all’ombra di un albero a riposare. Me lo ricordo poco prima che morisse, in una notte romana, scendere dal taxi per abbracciarmi e dirmi una frase che non ho più dimenticato: “Non ti far mai toccare da nessuno”». 

Cosa intendeva dire? 
«L’avevano operato agli occhi e dopo l’intervento non aveva più smesso di lacrimare, ma la frase, come si intuisce, poteva anche avere significati molto più profondi»

Mastroianni era bellissimo. 
«Ma a differenza di altri attori, dei colonnelli del cinema italiano come Manfredi o Gassman, non mi ha fatto mai la corte, neanche leggera o velata. Marcello era di una bellezza simile a mia madre. Nelle persone con cui ho amato dividere il lavoro c’era sempre una componente familiare, nel fisico e nel carattere».

Facciamo una lista degli amati? 
«Tognazzi era simpaticissimo e forse è l’attore che fuori dal set ho frequentato di più. Cucinava sempre, anche nelle situazioni più impensabili». 

Cucinava bene? 
«Era un avvelenatore, anzi un “avvelenatorissimo”. Io e Niki lo incontrammo a notte fonda nella sua villa di Velletri ai margini di una festa. Erano le quattro del mattino e Ugo rigirava nella padella intingoli di dubbia provenienza. Aveva l’allegria dello sperimentatore: “Cinque minuti e le mie cotiche fritte sono pronte, dovete assaggiarle per forza”. Io e Niki ci guardammo e filammo di corsa a dormire. Sa cos’è strano? Che con la mania che Ugo nutriva per la gastronomia non fosse diventato grassissimo». 

Memorie di Gassman? 
«Finimmo in ospedale insieme, sul set di “C’eravamo tanto amati”. Mentre la troupe pranzava, io e Gassman ci eravamo attardati a girare un camera-car. Trovammo gli avanzi e un polpettone micidiale. Rischiammo, ci andò male e ci ricoverarono. Vittorio non se la tirava mai. E spesso trascorreva le pause con i macchinisti e con gli operatori. C’era il rito del cestino, una liturgia quasi sacrale. Un bivacco soave. Un giorno un elettricista mi disse: “Signò, a forza di passà la vita sul set m’è venuta la cestinite”. Ma a me il cestino, con il suo slalom tra le pietanze e quel senso di scoperta e di sorpresa da rinnovare ogni giorno, è sempre piaciuto». 

C’eravamo tanto amati è il più bel film di Scola? 
«”La Famiglia” è un film perfetto, ma quello è sicuramente il film che gli somiglia di più. Conobbi Scola durante i provini di “Io la conoscevo bene” di Pietrangeli. Mi accolse con amicizia. Aveva un sorriso largo, una selva di capelli neri, una pinguedine rassicurante, mi conquistò. “Fece breccia” avrebbe detto lui». 

Io la conoscevo bene è adesso proiettato nei cinema francesi e a distanza di 52 anni trascina ancora la gente in sala. 
«Feci il film perché Pietrangeli nei confronti delle donne aveva uno sguardo particolare, uno sguardo colmo di rispetto e comprensione. “Io la conoscevo bene” resta un capolavoro». 

Con Scola nelle vesti di regista come andò? 
«C’era qualcosa che ci univa. Eravamo entrambi miopi, proprio come mio padre e mio fratello. Aveva la fragilità e l’autoironia che i miopi, per autodifesa, sviluppano nei confronti della vita».
 
Lei è stata molto amica di Monicelli. 
«Gli ho voluto veramente bene, dai suoi settant’anni non ho saltato un suo solo compleanno. Era arguto, affettuoso, fintamente burbero, ma capace ogni tanto di sviluppare cattiverie insospettabili».
 
Ce ne racconta una? 
«Sul set di “Brancaleone alle crociate”, trattò male un ragazzino. Era un pupo, un bambolotto cicciottello e Mario lo maltrattava. Gli disse una frase brusca: “Sei un trippone” e quello scoppiò a piangere. Monicelli si irritò ulteriormente perché i tempi, quando si deve girare, sono stretti. Io mi incazzai come una biscia: “Se fai così me ne vado e non torno mai più”. Me ne andai e tornai la mattina dopo. Ero fatta così. Sono fatta così». 

I set non sono solo rose e fiori. 
«Soprattutto per i ragazzini, anche per questo non ho mai voluto che mia figlia Amanda recitasse da piccola. Tutti quei cavi elettrici, tutta quella frenesia. Bertolucci l’avrebbe voluta sul set de “Il Conformista”, ma a Bernardo risposi proprio come fa Anna Magnani con Fellini sulla porta di un palazzo di Trastevere: “Nun me fido”». 

Con Bertolucci giraste “Novecento”. Quasi un anno di set nella bassa. 
«Fu un’opera lunghissima. Gli altri erano stravolti. Io ero l’unica o quasi che non se ne voleva andare. Ero felice, coccolata, c’erano attori meravigliosi, un bel vedere. De Niro lo conobbi in macchina, nell’intervallo tra notte e giorno, in mezzo alla nebbia. “Piacere, Alfredo Berlinghieri, Robert De Niro” mi disse. E io pensai “Che fico questo”». 

Depardieu la corteggiò? 
«Sotto il tabarro tendeva ad allungare le mani ovunque, ma Gerard sul tema era un po’ fastidioso. Un po’ molesto. Non disdegnava il vino a ore improbabili e non sapeva sempre controllarsi». 

E De Niro? 
«Peccava del vizio contrario. Era troppo controllato, troppo professionale, quasi robotico. Non si lasciava mai andare e non sapeva rilassarsi. Ho sempre pensato che dalla vita, Robert meritasse di più. Ma per lui esisteva soltanto il lavoro. Per “Toro scatenato” ingrassò trenta chili. Ma come si fa? Come ci si può immolare a un progetto in questo modo? C’è un limite secondo me». 

Con Bertolucci che relazione c’era? 
«Era gentile, un po’ aristocratico, molto dedito al suo mestiere. Una volta si incazzò perché era spuntata l’alba prima che concludesse la scena che doveva girare. Era fuori di sé. Mi avvicinai con calma: “Bernardo, ma ti rendi conto della tua reazione? Non puoi fermare il giorno che arriva, non sei onnipotente”». 

Sul set de “Il conformista” divise la scena con Trintignant. 
«Attore enorme, con la grandezza di chi a ogni film sa di dover dimostrare qualcosa in più e di doversi far scoprire dal pubblico in un’altra veste. Eravamo una famiglia: “Hai dormito bene? Vuoi il caffè? Sei contenta del lavoro?”. Lui e Bernardo mi tutelavano e non mi facevano sentire mai un’estranea». 

Con Brass si trovò bene? 
«Tinto è un uomo stupendo, ma sul set de “La chiave”, con una vestaglietta addosso, un po’ di disagio lo provai. Allora feci una sfilata seminuda, per combattere l’imbarazzo. “Io, signori, sono questa. E da oggi lavoreremo insieme”. Da quel giorno andò meglio». 

Moravia diceva che lei camminava spargendo sesso. 
«Non credo l’abbia mai detto in verità. Alberto lo conoscevo bene, parlavamo molto benché più che parlare, lui preferisse osservare gli altri sornione». 

Brass sostenne di averle offerto il seguito de “La chiave”, ma che l’esosità delle sue richieste impedì la replica. 
«Io e quel genio di Moira Mazzantini, chiedemmo 600 milioni al solo scopo di farci dire di no. Eravamo in imbarazzo. Ci trovammo nel suo ufficio per una lettura pubblica del copione e dentro c’erano fellatio, sodomie e tutto il corollario del soft-porno: “Nun se può ffà” ci dicemmo. E infatti il film non lo girai».

Di Volonté che ricordi ha? 
«Facemmo insieme un solo film, “L’amante di Gramigna”, Gian Maria si lamentava della quantità e della qualità del cibo. Armava lotte sindacali durante le riprese, credeva in quello che diceva. E non diceva il falso. Sui set, per risparmiare, certi produttori compivano nefandezze di ogni tipo. Un giorno, ero con Tognazzi, arrivò un vino che sembrava acqua sporca. Ugo si indignò. Lo versò in una boccetta e portò il tutto in un laboratorio di analisi». 

Risultato? 
«Era acqua sporca. Ugo tornò con le analisi in mano, trionfante». 

Che cosa le ha insegnato la vita? 
«Pur di non smettere di giocare, per la frenesia di non smettere di brigare e divertirmi, da bambina trattenevo la pipì. Sono rimasta la stessa felice ottimista di ieri. Ho vissuto una vita meravigliosa perché la vita è un bellissimo viaggio. Vorrei che ci fosse più unione e che la condivisione fosse un traguardo e non uno slogan». 

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