Statali, uno su tre resterà a lavorare in smart working

Statali, uno su tre resterà a lavorare in smart working
di Andrea Bassi
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Martedì 9 Giugno 2020, 00:22 - Ultimo aggiornamento: 10 Giugno, 00:00

Il piano, se riuscisse, potrebbe cambiare il volto alla Pubblica amministrazione. Per anni lo smart working dei pubblici dipendenti è stata una buona intenzione scritta però sulla sabbia. L’obiettivo, seppur poco ambizioso, di raggiungere una quota di almeno il 10% degli statali in “lavoro agile” si è a lungo dimostrato una chimera. Le percentuali dei dipendenti che hanno avuto accesso allo smart working sono rimaste limitatissime. Ma come per tutto ormai, c’è un’era avanti-Covid e un’era post-Covid. Nel tempo di mezzo tra queste due ere, durante la fase di massima emergenza, nella pubblica amministrazione lo smart working è diventato la modalità «ordinaria» di svolgimento della prestazione lavorativa. Finita l’emergenza, il ministro della pubblica amministrazione Fabiana Dadone, ha intenzione di fare in modo che una quota significativa dei dipendenti pubblici possa continuare ad operare in modalità “smart”. Il decreto rilancio, appena trasmesso alle Camere per la conversione in legge, prevede per il momento un ritorno «graduale» alla normalità.

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Secondo i primi dati in ufficio sarebbe tornato circa il 25% degli statali che stavano lavorando in modalità agile. Nella sola Roma, dove si concentra buona parte del lavoro pubblico, su 400 mila dipendenti statali, avrebbero fatto rientro nei ministeri, negli enti pubblici, all’Inps, alle Agenzie fiscali e in tutte le altre articolazioni della macchina pubblica, circa 100 mila persone. Al ministero della Funzione pubblica, tuttavia, ci sarebbe in preparazione un pacchetto di emendamenti al decreto rilancio per rafforzare lo strumento. L’idea sarebbe quella di fissare una doppia soglia “obiettivo” sul numero di lavoratori da mantenere in modalità “agile”. Una prima soglia generale, valida per tutta la pubblica amministrazione, e una seconda soglia specifica, che riguarderebbe invece solo i lavoratori e le mansioni che il ministero definisce “smartabili”.

Cosa significa esattamente? La prima soglia obiettivo è abbastanza semplice. L’attuale 10% verrebbe fatto salire al 30%, o leggermente di più. Significherebbe fare in modo che dei 3 milioni di dipendenti pubblici italiani, almeno un milione possano accedere allo smart working. Ogni singola amministrazione, però, dovrebbe indicare al suo interno quali sono le mansioni che possono essere svolte in modalità agile e quanti sono i lavoratori dedicati a quelle mansioni. Una cernita lasciata all’autonomia dell’amministrazione. Il salario accessorio dei dirigenti andrebbe in parte parametrato sulla loro capacità di organizzare il lavoro agile. Qui agirebbe la seconda soglia. Il 60% delle attività “smartabili” dovrebbe essere effettuato da remoto. L’intenzione, insomma, sarebbe questa. Ma la strada è tutt’altro che in discesa. Per ora, così come nel settore privato, lo smart working è possibile solo grazie allo stato di emergenza dichiarato dal governo fino al prossimo 31 luglio. Una circostanza che permette di bypassare tutte le regole ordinarie. 
 



LA TRATTATIVA
Che però, presto o tardi, sono destinare a ritornare. Lo smart working nella pubblica amministrazione, dunque, dovrà essere contrattato con i sindacati. Lo strumento in realtà ci sarebbe pure. Il governo, prima o poi, dovrà avviare le trattative per il rinnovo del contratto di lavoro attraverso l’emanazione delle direttive all’Aran, l’Agenzia che siede al tavolo con i sindacati, nelle quali potrebbe essere inserito anche il capitolo smart working. Non tutti e quattro i comparti che compongono il lavoro pubblico però, avrebbero le stesse opportunità di lavoro agile. Lo smart working, a meno che non si voglia proseguire con la didattica a distanza, risulta difficile per esempio per il comparto scuola, dove ci sono oltre un milione dei tre milioni di dipendenti pubblici. E lo stesso discorso vale per la Sanità (medici e infermieri) e per le Forze dell’ordine. I lavori “smartabili” sarebbero soprattutto quelli delle funzioni centrali (i ministeri e le Agenzie fiscali), dove ci sono 230 mila lavoratori pubblici, e gli Enti locali (Comuni, Regioni e Province), altri 600 mila dipendenti.

Insomma, buona parte dello smart working riguarderebbe queste categorie di dipendenti pubblici. Ma come si farebbe a misurare allora, le loro prestazioni? Si tratta in fin dei conti proprio di quella parte dei lavoratori pubblici che negli ultimi anni sono finite nelle maglie delle inchieste della magistratura sui “furbetti del cartellino”. L’idea del ministero sarebbe quella di arrivare a una sorta di “metrica” condivisa delle prestazioni lavorative da svolgere. In sintesi estrema, se per una certa mansione è previsto che in otto ore si sbrighino 10 pratiche, se un lavoratore in “smart” ci mette 4 ore o 10 ore, dipenderà solo da lui. L’importante è che rispetti lo standard e le scadenze. 

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