Sanremo 2020: storie, polemiche e duelli. Sembra l’Italia

Sanremo: storie, polemiche e duelli. Sembra l Italia
di Massimo Cotto
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Lunedì 3 Febbraio 2020, 00:23 - Ultimo aggiornamento: 11:13

Tutto oggi si può dire, ma nessuno l’avrebbe detto allora, il 29 gennaio 1951, l’anno di Churchill e del governo De Gasperi, del trio Gre-No-Li che spinge il Milan a rivincere lo scudetto dopo 44 anni, di Anna Magnani in Bellissima di Visconti e del primo Fellini. Era un lunedì, serata morta per il Casinò di Sanremo e, in generale, per la città ligure. Per questo, Pier Busseti, gestore del Casinò, aveva avuto l’idea: organizzare una serata stile cafè chantant. «Mettiamo dei tavoli al Salone delle Feste, un piccolo palco e facciamo cantare qualche canzone a Nilla Pizzi, Achille Togliani e al duo Fasano. Magari attiriamo un po’ più di gente». «Sì, ma quali canzoni?», dissero in Comune.

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IL MOSTRO
Ne arrivarono 240. Venti di queste furono eseguite nell’indifferenza generale delle persone che avevano pagato 500 lire a testa per gustarsi il menù gastronomico e tollerare quello musicale. Leggenda vuole che la famosa frase «Cari amici vicini e lontani» fu pronunciata più volte da Nunzio Filogamo con intenzioni polemiche nei confronti del pubblico, che, anche durante le canzoni, continuava a parlare, mangiare, bere e ridere come se nulla fosse. Il presentatore faceva appello a chi ascoltava da casa, alla radio, perché la televisione arriverà tre anni dopo, sempre in gennaio. E con la televisione, il festival sarebbe diventato quel che è ancora oggi: un mostro a più teste difficile da catturare, nel senso che è difficile parlarne senza cadere del banale, è azzardato analizzarlo senza finire in un cul de sac.

No, nessuno avrebbe neanche lontanamente immaginato che settant’anni dopo saremmo stati ancora qui, a parlare di fin dove si deve spingere la censura, di ragazze che fanno un passo indietro, di esclusi e inclusi. Il festival di Sanremo, che domani aprirà i battenti per la settantesima volta, è l’unico luogo al mondo dove non si parla di ricchi e poveri, ma di Ricchi e Poveri, la cui reunion in formazione originale sembra essere più attesa di quella dei Led Zeppelin.

LA GARA
Continuiamo a dire che non è rappresentativo della musica italiana, eppure tutti gli artisti fanno a gara per andarci, indipendentemente dagli stili. Vasco e Zucchero, due delle nostre più grandi star, ci sono stati, con esiti differenti: il primo, dopo essersi infilato in tasca nel 1983 il microfono e svelato a tutti che stava cantando in playback Vita spericolata, ha edificato da lì il suo mito, il secondo ha raccolto poco, visto che Donne finì penultima nel 1985. Tre delle voci pop più rappresentative - Laura Pausini, Giorgia e Eros Ramazzotti - sono nate, artisticamente, all’Ariston. Le band rock più oltranziste (Afterhours e Marlene Kuntz) non hanno opposto alcuna forma di snobismo, così come molti cantautori, da Lucio Dalla a Gino Paoli, da Carmen Consoli a Roberto Vecchioni. Le Signore della canzone, ovvero le nostre più amate interpreti, hanno sempre fatto a gara per partecipare, da Ornella Vanoni a Mia Martini, da Fiorella Mannoia a Loredana Bertè.

LA VETRINA
In sintesi: di che cosa stiamo parlando? Ovvio che il festival di Sanremo non è rappresentativo di tutta la musica italiana. Nessuna rassegna potrebbe esserlo. Nemmeno Woodstock ha coperto l’intero arco costituzionale rock. Sanremo è la più grande vetrina che possa esistere (altrimenti non sarebbero venuti come ospiti Bruce Springsteen, Madonna e Paul McCartney), sia per i Big che per i giovani talenti. Non esiste confronto con gli altri talent, prova ne è che chi vince X Factor spera di andare a Sanremo, mentre chi vince Sanremo Giovani non pensa nemmeno per un attimo di iscriversi a X Factor.

La realtà è che Sanremo ferma il tempo, ed è questo il grande mistero. Sopravvive a tutto. Ha attraversato indenne il Sessantotto, quando dicevano che la fantasia doveva andare al potere eppure attaccavano il festival dimenticando che è nelle canzoni che abita la fantasia destinata al potere. Sanremo vive un tempo tutto suo. Nel 1966 elimina Il ragazzo della via Gluck di Celentano perché poco interessata a temi ecologisti o anche solo vagamente sociali. Nel 1967 assiste impassibile al suicidio di Luigi Tenco e l’anno successivo la Commissione boccia Meraviglioso di Modugno, che aveva avuto un’idea bellissima: lui che aveva scritto Vecchio frac dove un uomo si suicidava, ora raccontava la storia di un uomo che voleva suicidarsi ma veniva salvato da “un angelo vestito da passante”. Un modo sublime per ribadire la bellezza della vita su un palco che l’anno prima aveva conosciuto una tragedia. Ebbene, Meraviglioso, che poi conobbe un successo clamoroso, fu scartata con una motivazione secca e assurda: «A Sanremo non si parla di suicidio».

IL CONTRARIO
Sanremo insensibile, che scarta una canzone scritta da Fabrizio e Cristiano De Andrè (Cose che dimentico), che nega a Mino Reitano l’ultima passerella quando sapeva di essere condannato, che elimina Claudio Villa nel 1982, con conseguente scandalo, polemica con Gianni Ravera e, si dice, anche qualche cazzotto. Sanremo che però si commuove per Giorgio Faletti (Signor tenente), Renato Zero (Spalle al muro), Pierangelo Bertoli e i Tazenda (Spunta la luna dal monte), per dire solo i primi tre che mi vengono in mente. Sanremo che è tutto e il suo contrario, generoso e indifferente, corretto e incivile. Come noi.

Ecco, alla fine, questo possiamo dire: il festival di Sanremo non è rappresentativo della musica italiana, ma è rappresentativo dell’Italia. Noi siamo il festival, che ci piaccia o no, e che gli intellettuali si indignino pure, tanto la sostanza non cambia. Sanremo è sorrisi e mazzette (Gigi Vesigna, in un suo libro, ammise di avere sempre saputo prima il vincitore e per questo gli dedicava la copertina in anticipo). Sanremo, esattamente come l’Italia, vive periodi di crisi drammatica (il festival crollò nella seconda metà degli anni Settanta, l’edizione del 1975 fu la peggiore di tutti i tempi) e di meravigliosa rinascita.

IL RITO
Se vuoi capire l’Italia, prima ancora di guardare l’esito delle elezioni, guarda i risultati del televoto. Sanremo è l’ultimo baluardo di quel castelletto di cultura nazional-popolare che cerchiamo sempre di distruggere e che invece sopravvive. È un rito liberatorio, ci consente di tifare contro o a favore, sapendo che non ci rimettiamo nulla, mentre a volte abbiamo la sensazione di andare a votare e che non faccia differenza se vince uno schieramento o l’altro, tanto si metteranno d’accordo per governare. Sanremo è come un giornale scandalistico o una trasmissione televisiva trash: a parole condanniamo, ma poi, magari di nascosto, corriamo a leggere o guardare. Perché quella che vediamo è la nostra immagine riflessa. Siamo noi che cantiamo trottolino amoroso du du du da da da e che poi, quando incontriamo qualcuno, gli chiediamo se ha visto l’ultimo film di quella palla mortale che è Lars Von Trier.
 

 
 

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