Sabrina Ferilli: «Roma torni a essere una città visionaria»

Sabrina Ferilli: «Roma torni a essere una città visionaria»
di Alvaro Moretti
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Domenica 17 Giugno 2018, 01:08 - Ultimo aggiornamento: 18 Giugno, 09:45
Cosa vede quando guarda Roma, Roma? Perché Sabrina Ferilli, la sua Ramona, dopo l’Oscar La Grande Bellezza, è la metafora di questa città: disperatamente vitale, anche nell’agonia o nelle ferite che si riaprono, come quelle di questi giorni di cronaca e carte di tribunale.

Ramona-Sabrina non volta lo sguardo, ma sospira come tanti cittadini: lo sa che «Roma è complicata». Passeggiandoci da una vita, respirandola e riconquistandola nei giorni lunghi passati a Fiano, Sabrina, la ragazza del quartiere Prati ha fissato lo sguardo su persone e fatti, su icone e monumenti, su scene e movimenti di una città che ha sentito il bisogno di raccontate per parole e immagini con Alessandra Mammì: Io e Roma, 160 pagine di fotografie e racconti (Flaiano e Garinei, Trovajoli e Virzì) senza tempo ma a tempo pubblicate con Contrasto. Lo presenterà – non a caso – alla galleria Sordi, nel pieno centro della sua città martedì 19 alle 19. 

Cosa vede, quando guarda Roma, Sabrina?
«Casa, gli affetti più cari, un’artista che vede anche attraverso le cose per interpretarla. In questo libro cerco di spiegare che Roma, no, non è facile. Non può esserlo. Puoi amarla solo se rispetti la sua complessità: Roma è complessa, è una forma di appartenenza, una temperatura. È indolenza, certo, ma ha talmente tanti strati… Pensi al mio quartiere, Prati».

Perché, quanti strati ha, Prati?
«Da bambina giocavo a piazza Cavour e mi spaventava il Palazzaccio: pensate che in un chilometro quadrato hai San Pietro e la sua santità, quel tribunale, simbolo di una legge che può spaventare per come sembra schiacciarti, un tribunale ancora vivo nelle sue funzioni, e Castel Sant’Angelo, il potere temporale dei Papa Re, raccontati da Magni. E se superi il Tevere, a due passi dalla Cancelleria, la statua del Pasquino con lo spirito romano che rischiava per esprimere il suo pensiero, con ironia e sarcasmo tutto romano. E Roma è tutta così, anzi di più c’è pure la città sotterranea, una macchina del tempo».

In superficie ci sono le persone: i romani. Li vede diversi pure lei che spesso sorprendiamo in centro a fare due passi per mescolarsi, questi romani?
«Nel libro trovate delle foto bellissime che ritraggono i cittadini di una volta e quelli di oggi: le facce meno scavate, ora. Ma più tese, incavolate. E anche figlie della grande mescolanza con i tanti che Roma l’hanno pensata come pista d’atterraggio. E i tanti turisti che la usano giorno e notte per un passaggio veloce, ma tanto impattante sulla città. Allora i romani non si assomigliavano, come ora: i segni della fame li vedevi, i poveri e i ricchi. Ma vedevi tanti ragazzini in queste foto: giocano per strada, oggi non è più così. Dove sono finiti i ragazzini di Roma, ‘ndo stanno i palloni? Comunque i romani non sono tanto più incazzati dei berlinesi. Anzi: il livello di sopportazione, qui, storicamente è elevatissimo. La rabbia c’è soprattutto per questa politica triste, per come la vedono tramontare e rendersi distante, brutta».

Nel libro e nei suoi racconti tanta Roma Est, oltre al centro e Prati: San Giovanni, Mandrione e Cinecittà.
«Ci ho passato tanto tempo a Cinecittà, soprattutto nei giorni di Commesse, la fiction di Raiuno. Poi il Mandrione, che ricorda a tutti Pasolini: uno di quei forestieri che hanno sentito il fascino, l’attrazione fatale e la temperatura di Roma. Sorrentino, con La Grande Bellezza, gira il film più romano di sempre – tra verità e metafora, tra storia e finzione – ed è napoletano. Come forestieri sono Fellini, Flaiano».

Io e Roma propone anche sguardi sognanti. E persino una foto bellissima di pecore a Piazza di Spagna, nel 2000.
«Quella foto di Scianna è la scena di un film: allora si poteva forse sognare di occupare Roma con una follia bellissima come il cinema. Serve una Roma più favolistica. Ho letto da una vostra intervista che Paolo Genovese parlava di città prevedibile: è vero, e non deve essere così». 

Prevedibile anche per i guai che combina, come vediamo. 
«Roma non è Dublino: chi la governa deve essere all’altezza. E non accettare il peggio dell’imbastardimento della città. Non è questione di soldi, ma di visione: bisogna averne una. Forse è vero che la Raggi ha avuto più difficoltà di altri, ma si devono fare più cose, prendere più iniziative. Se la città non decolla ci si assume una responsabilità. A partire dal decoro».

Ho letto, i pullman che invadono e altre notazioni nel libro…
«Stiano fuori, ai turisti date un treno che dalla periferia li porti a San Pietro».

E molte sono le foto sulla “Santità del Cuppolone”, come canta Venditti. Ma se chiedo di scegliere una foto, Sabrina?
«Le dico quelle del capitolo dedicato ai funerali di Berlinguer: un momento di sacro laicismo, un evento soprannaturale e non lo dico da figlia di un dirigente del Pci. Quei militanti piangenti a San Giovanni. Un fiume di persone e rispetto, unione. Un’unità verso il bene e non il male che mi manca tanto da cittadina. In quegli sguardi fissati nel libro da Berengo Gardin, Klein e Barbey, vedete la vita mica i robot».

Tra le pagine del libro anche i ricordi del Sistina di Garinei e Trovajoli, le foto del Sistina. Rosetta, Rugantino.
«Rugantino è stato il passaggio più forte della carriera come attrice romana. Quelle canzoni splendide di Armando, un romano coltissimo. E Garinei, un triestino anche lui nella schiera dei neo-romani. Il Sistina vuol dire avere il rapporto più diretto possibile con la gente della mia città. E quella storia disegna il tratto eroico dei romani e delle romane: siamo cinici, sarcastici – e ci mancherebbe pure non lo avessimo - e capaci anche di slanci eroici. Nella Grande Guerra il personaggio di Gassman il coraggio sa trovarlo per affrontare la morte. E anche Tosca è una storia di coraggio romano. Perché Roma è complicata, ma se ritorna ad essere visionaria, con sarcasmo, può decollare ancora. Deve».
 
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