Gervaso, quel sorriso del maestro d’aforismi

Gervaso, quel sorriso del maestro d aforismi
di Mario Ajello
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Mercoledì 3 Giugno 2020, 00:54 - Ultimo aggiornamento: 09:24

La vita è la più monotona delle avventura, finisce sempre allo stesso modo». Diceva così Roberto Gervaso, ora la sua avventura che è stata divertente e divertita s’è conclusa ieri a Milano (i funerali, appena possibile, nella Chiesa degli artisti a Roma) nella maniera più ovvia, e di lui - per chi lo ha conosciuto da vicino, lo ha frequentato, gli ha voluto bene - tra i tanti ricordi ne resta uno che li riassume tutti: Roberto, il grande giornalista e scrittore, è stato l’unico sapiente a non darsi arie, a non atteggiarsi a cervellone o maestro (che spesso equivale a trombone), a giocare con il proprio estro con leggerezza e profondità che aveva imparato dai classici. Da quei suoi miti di cui parlava sempre e che ha frequentato fino alla fine. Quando ancora, a chi gli telefonava negli ultimi tempi, diceva: «Lo sai, ho scoperto appena adesso, per la milionesima volta, certe pagine di Seneca che già conoscevo a memoria». Era fatto così Gervaso. La sua infinita serietà stava nel non prendersi sul serio o almeno nel fingere. E in questo era più bravo perfino di Indro Montanelli, con cui ha scritto pagine di giornalismo e di storia (L’Italia dei secoli bui fu il primo colpaccio) come pochi giornalisti («Per lo più scrivono con i piedi. Sudati») e pochi storici sanno fare. Fra i tanti messaggi di cordoglio, primo fra tutti quello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha voluto ricordarlo come «un uomo di finissima cultura».

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Era un irregolare che non cercava una regola. Era convinto, da liberale ilare e non barboso, che una minoranza ragionevole resterà sempre una minoranza e viveva la condizione del non allineato senza complessi né pose di superiorità moraleggiante. E poi quella sua vaga somiglianza con Churchill, uno dei suoi campioni, faceva parte dello spasso e del suo spessore. Chi non ha mai pasteggiato alla sua tavola, s’è perso tanto. Spaziava tra aforismi e aneddoti d’ogni genere. Compresi quelli sulle conquiste femminili, quando era giovane, ma anche per lui come per il suo amico Indro valeva questo principio: «La verosimiglianza è più vera della verità». Gli piacevano i tipi alla Cagliostro, Casanova, Nerone, di cui infatti è stato magnifico biografo. 

Era nato a Roma il 9 luglio del ‘37. Iniziò al Corriere della sera. Poi ha scritto un po’ ovunque ed eccolo finalmente al Messaggero e al Mattino. In più la tivvù, funzionava anche lì. Dagli anni ‘60, la contestazione aveva lasciato nella società rovinosi strascichi di permissivismo e, insieme, d’intolleranza. Chi non militava a sinistra era, ipso facto, di destra. Lui invece era lui. E questo gli valse le censure e gli anatemi di molti colleghi del mainstream culturale e del conformismo incapace di incasellare una figura come lui e dunque obbligato, per propri limiti tuttora vigenti, a rifiutarlo. Era politicamente non un liberale senza aggettivi, ma strapieno di aggettivi: crociano, einaudiano, giolittiano, ma anche un «conservatore anarchico». Il rapporto con sua moglie Vittoria, donna siciliana molto bella, è una parte notevole dell’avventura di Gervaso e la maniera con cui la ammirava rimane, per chi li ha visti, un modello di amore divertito e divertente. Raro anche quello. Come tutto in lui. L’amicizia e la collaborazione con Montanelli ha prodotto i primi sei volumi della Storia d’Italia (Rizzoli), per non dire di Italiani pecore anarchiche o di Eros e coppia. È stato uno dei primi a fare divulgazione storica in Italia (l’ultimo libro è uscito il 21 maggio, La regina, l’alchimista, il cardinale (Rubbettino Editore), romanzo storico ambientato nella Francia di Luigi XVI). Lo appassionava la politica perché «sangue e merda». Odiava i retroscena giornalistici. Adorava i racconti sui leader, visti con le loro debolezze caratteriali. Era noto per il suo papillon. Ma anche per la sua depressione che ha magnificamente raccontato. Di sicuro non rientrava nelle due categorie su cui ironizzava: «C’è’ chi crede di essere un grande scrittore perché tutti lo leggono; e c’è chi crede di essere un grande scrittore perché nessuno lo legge».

È stato a lungo vegetariano e «se fossi libero dalle diete e dalle medicine, mangerei con tre cucchiai: uno l’affondo nella Nutella, uno nel gorgonzola e uno nello squacquerone». Negli ultimi anni aveva ingaggiato una sorta di corpo a corpo con i simpaticissimi nipoti, i figli di Veronica, che lui chiamava amorevolmente «i teppisti». E diceva di sé quando gli acciacchi si moltiplicavano: «Pur non avendo mai avuto una vocazione socratica, cammino sculettando a causa di una lombosciatalgia ostinata, pervicace e credo inguaribile. E quindi, sculetterò sempre di più. E speriamo di rendere l’anima prima che questo sculettamento diventi un vizio o una cattiva abitudine. Ho paura che prima o poi la buoncostume mi venga a prendere. Augurandomi che non abusi di me». Era nato a Roma, l’aveva ripresa e abbandonata più volte e l’amava più a morsi che a baci, più a graffi che a carezze. E diceva: «Finché Roma era un bordello con una maitresse, era possibile viverci. Oggi non c’è una maitresse e Roma è diventata una porcilaia, una discarica a cielo aperto». Gli piaceva l’iperbole. E gli piaceva moltissimo, ma mai quanto Orazio o Montaigne, Ennio Flaiano: «La sua descrizione di Roma è una delle migliori. Gli pareva l’unica città africana senza un quartiere europeo». 
La morte sosteneva di non averla mai capita e solo adesso nell’aldilà avrà trovato una risposta: «La morte è un ponte o un abisso?». Non era cattolico, ma agnostico. E per lo più credeva in sé, convinto che ognuno di noi ha in se stesso una scintilla cosmica. La sua si è spenta, insieme al sorriso di un pessimista giocoso.
 

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