Riccardo Muti, a lezione dal Maestro

Riccardo Muti, a lezione dal Maestro
di Rita Sala
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Sabato 21 Marzo 2015, 23:39 - Ultimo aggiornamento: 22 Marzo, 00:11
dal nostro inviato

PIACENZA - «Leggendo certe dichiarazioni che avrei presuntamente fatto, osservazioni improbabili spacciate per mie, sono arrivato a una precisa consapevolezza: vorrei essere lasciato in pace. Dimenticatemi. Non chiamatemi in continuazione per avere giudizi su questo o quell’evento. Non chiedetemi di prendere posizione su qualsiasi argomento, vicino o lontano da me, spesso e volentieri anche non musicale. Le mie battaglie le ho fatte, guardando negli occhi gli interlocutori. Quando era necessario ho detto il mio pensiero in faccia al Potere, a favore della cultura, dei teatri italiani, dei giovani, che avrebbero il diritto di ereditare un Paese, l’Italia, con le sue caratteristiche fondamentali intatte: bellezza, arte, creatività. Adesso vorrei lavorare in pace, al di là delle dietrologie e dei misunderstanding».



Riccardo Muti, stasera a Barcellona, al Palau de la Musica catalana, con l’orchestra giovanile “Luigi Cherubini” (è la terza tappa della tournée internazionale con il complesso da lui fondato nel 2004), racconta il desiderio di pacatezza e serenità che il circo mediatico, spesso e volentieri, gli nega.



«Sembra che volare alto sia fatica sprecata. Mi eleggono ad arbitro di questioni che, ultimamente, sono sempre le stesse. Ad esempio, ho a suo tempo spiegato con chiarezza, già nella lettera con la quale mi congedai da un Teatro dove non ero direttore musicale, bensì “davo una mano”, i motivi del mio allontanamento dall’Opera di Roma: sono mancate le condizioni per rimanerci. Lavoravo con una buona orchestra, ma ho visto via via scemare la compattezza, l’entusiasmo, la possibilità di realizzare grandi cose. Sorgevano difficoltà di ogni tipo. La tournée in Giappone (con due opere di Verdi, Nabucodonosor e Simon Boccanegra, n.d.r.), alla quale buona parte dell’ensemble non partecipò, è stata poi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». Sulle voci che circolano, periodicamente, sulla possibilità che torni nella Capitale, taglia corto: «Nel mare magnum delle notizie che oggi si inseguono con una rapidità e un pressapochismo riprovevoli, se ne sentono di tutti i colori. Non sarebbe invece ora di affrontare i grandi temi, di ridare un valore al lavoro, allo studio, al sacrificio, di ricostruirci, come persone e come Paese?».



Maestro, dopo la tournée con i suoi Cherubini, che ritroverà a maggio, ci sono i concerti con i Berliner e la tournée con i Wiener che terminerà a fine aprile al Palazzo del Cremlino. Quando cominceranno le sue lezioni all’Accademia dell’Opera italiana, da lei appena fondata?

«Concretamente a luglio, all’Alighieri di Ravenna, durante il Festival. Lavorerò provando il Falstaff di Verdi con cinque direttori d’orchestra e cinque maestri collaboratori, scelti dopo una lunga e severa selezione. Sono arrivate centinaia di domande da tutto il mondo. Ho preteso che la prima scrematura fosse per titoli: scartati gli aspiranti privi degli studi di pianoforte e di composizione. Solo in seconda battuta siamo passati a guardare i video. L’ultima decisione, sui dieci prescelti, la prenderò personalmente a breve. Chi, fra i non ammessi, vorrà assistere alle lezioni come uditore, può farne richiesta: le prove sono aperte».



Pianoforte e composizione, come una volta.

«Proprio così. Quando il maestro Napoli intuì in me qualche talento direttoriale, non mi mise certo sul podio, mi disse invece: adesso devi studiare. Furono anni di studio matto e disperatissimo, per dirla con Leopardi. Esercizi su esercizi (per il diploma di composizione occorrevano allora dieci anni di corso, n.d.r.), facevo le gare con Azio Corghi, che era il miglior contrappuntista del Conservatorio. Pile su pile di esercizi, che conservo ancora. Oggi, al contrario, si arriva sul podio in souplesse, ci sono direttori musicali responsabili di grandi teatri che non sanno suonare il pianoforte, altri, soprattutto tra i giovani, che non hanno studiato composizione. Ecco perché nell’opera, ad esempio, si è persa la capacità di concertare, cioè di costruire la regia musicale di un titolo lavorando a fondo con un cantante al pianoforte o ragionando con l’orchestra sulle caratteristiche di una partitura. Io credo si sia perso, in generale, il senso del sacrificio, che invece, nella musica, è fondamentale. Sembra sia disonorevole predicarlo e pretenderlo. Su questo piano, penso si debba proprio tornare indietro».



È possibile insegnare la direzione d’orchestra o ci si deve limitare a riconoscere e favorire la naturale attitudine di alcune persone?

«È possibile insegnare la musica, far comprendere a un direttore, in senso maieutico, come il gesto - lo diceva Toscanini - sia solo il prolungamento di un lavoro mentale di analisi, sintesi e sublimazione. Altrimenti ci si trova davanti a un agitare atletico, più o meno elegante, delle braccia e delle mani, che non ha nessun vero senso».



Fanno parte di questo “insegnare la musica” le indicazioni di postura del corpo, di atteggiamento da tenere in orchestra che lei dispensa ai giovani Cherubini durante le prove?

«Esattamente. L’attitudine fisica di un musicista nei confronti di ciò che fa è fondamentale. Non è possibile vedere in orchestra gente ripiegata sullo strumento, molle, rilasciata. Né, tantomeno, coglierla mentre pensa ad altro e crede di poter suonare meccanicamente. Anche le pause, spiego ai Cherubini, hanno una loro vita interna, un loro senso. Bisogna viverle con intensità, conoscere ed esaltare il loro compito di collegamento tra un momento musicale e l’altro. Non è possibile lasciar “cadere” la musica durante una pausa, come se finisse, per poi riprenderla».



I Cherubini, frequentandola spesso, sono diventati bravissimi. C’è, tra lei e i giovani, un rapporto davvero paterno che non sfugge a nessuno. Era nei suoi piani il momento didattico?

«A un certo punto della vita e della carriera ho pensato che non potevo mandare disperso tutto ciò che ho ricevuto dai miei maestri. Mi sono sentito investito di un compito, quello di trasferire nei giovani il metodo e gli strumenti che hanno permesso a me di arrivare fin qui, amando il mio lavoro perché i maestri mi hanno messo nelle condizioni di conoscerlo a fondo. Se poi penso a come erano un tempo i nostri Conservatori e a come sono oggi, il desiderio di insegnare all’antica diventa anche più forte».



Sul podio delle maggiori orchestre del mondo, la Chicago, di cui è direttore musicale, i Wiener, i Berliner, pensa mai (in un certo senso) di perdere tempo dedicandosi così intensamente al suo ensemble giovanile?

«No certo. Le grandi orchestre hanno un tale livello di qualità e di perizia strumentale da poter dialogare con il direttore praticamente alla pari, in uno scambio continuo di impressioni, informazioni, prove. Con i giovani è diverso. Li modelli, li vedi crescere, dai loro l’impulso e l’impronta che altri, nel passato, hanno dato a te. Un processo davvero segnato dal rapporto padre-figli che mi arricchisce enormemente e mi permette di restare in contatto con ideali ai quali non so ancora rinunciare: la speranza, l’orgoglio nazionale, la capacità di onorare il passato rinnovandolo, il desiderio di confermare la scelta artistica».



È a conoscenza del fatto che l’attuale governo di Roma vuole sostituire il tradizionale S.P.Q.R. con il marchio ROME & YOU?

«Non riesco a concepire una decisione del genere. Mi piacerebbe fosse solo una burla. Una sera, dirigendo a Roma un concerto di musiche di Rota, ricordo di non aver trovato nulla di meglio, per salutare la città, di alcuni versi del Carmen saeculare di Orazio: 'Alme Sol, curru nitido diem qui promis et celas aliusque et idem nasceris, possis nihil urbe Roma visere maius'».



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