Renzo Arbore: «Ritorno al passato e ancora improvviso»

Renzo Arbore: «Ritorno al passato e ancora improvviso»
di Andrea Scarpa
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Domenica 10 Dicembre 2017, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 16 Dicembre, 16:35
Ha 80 anni, Renzo Arbore, ed è ancora un campione. Di incanti. Di ricordi. E di cazzeggio. Mercoledì 13 dicembre, torna in tv per due prime serate di Raidue (la seconda è in palinsesto il 20) condotte da Andrea Delogu: Indietro tutta 30 e l’ode, in cui assieme a Nino Frassica rievocherà le 65 puntate dello show di trent’anni fa - in onda dal 14 dicembre 1987 all’11 marzo 1988 - entrato di diritto nella storia della tv italiana. In questi giorni è uscito anche il cofanetto Arbore Plus, tre cd con il meglio della produzione musicale. Ci vediamo a casa sua, a Roma. In pratica, un luna park. Fatto di pupazzi colorati, luci al neon, flipper, teste di Louis Armstrong e Totò, pappagalli (finti) che cantano, palle di Natale con Elvis, dipinti con il Golfo di Napoli, radio di ogni epoca, palme a pois, borse di plastica e via dicendo.

Senta, ma uno come lei che ha sempre cercato di evitare la noia, non si stufa a parlare dei tempi andati e, come in questo caso, ad autocelebrarsi?
«No, e perché? In fondo ho sempre avuto il gusto del passato».

Anche da giovane?
«Meno, ma non sono mai stato snob. A Napoli, durante i sette anni di studi in Legge avevo un giro di amici anziani molto divertenti. Con alcuni suonavo anche. Adesso con Pupi Avati ed Enrico Vanzina vorremmo fare un gruppo chiamato “I Ricordatori”, per fare il punto su quello che abbiamo vissuto. Sa, io ho visto il duce, il ’68, il riflusso… Riscoprire certe cose fa bene. Magari i giovani distratti da Internet potrebbero trovarle interessanti. Io nel corso degli anni l’ho fatto spesso, soprattutto con la musica».

Allude alla canzone umoristica e al grande repertorio napoletano?
«Esatto. Ho iniziato con Il clarinetto e poi sono passato alle meraviglie della canzone partenopea».

Operazione che i cantanti napoletani non le hanno perdonato, vero?
«Verissimo. Ci fu un vero e proprio moto di indignazione. Dissero, quasi tutti, che ero un usurpatore. Un cafone di Foggia. Solo Renato Carosone mi telefonò subito: “Non ti preoccupare, è tutta invidia”. Recuperai anche i mandolini che all’epoca erano criminalizzati da una certa cultura di sinistra che li vedeva legati a una tradizione popolare da osteggiare perché considerata un limite al progresso. Non si poteva neanche dire che Napoli era la città del sole…».

Con i cantanti com’è finita?
«Uno dopo l’altro sono venuti tutti ai miei concerti. Con la mia Orchestra Italiana sono stato in tutto il mondo a far sentire la parte migliore di questa città. Ancora oggi faccio cinquanta spettacoli l’anno».

Chi viene a casa sua, le chiede spesso se ha avuto un’infanzia difficile?
«Sì. E la risposta è no. La mia famiglia era benestante, papà faceva il dentista. Però mi ha educato con pochi giocattoli e senza un soldo in tasca. Nella vita, mi diceva, qualsiasi cosa bisogna guadagnarsela. Così, appena ho potuto, mi sono scatenato per far sopravvivere il fanciullino».

C’è riuscito?
«Sono un bimbo vecchio. Per un artista rimanere un po’ infantili è un bene. Mi piace l’idea dello stupore».

L’ultima volta che si è stupito?
«Ogni volta che percepisco il divertimento dei musicisti mentre suonano. È una cosa che continua a incantarmi. Proprio come da bambino mi lasciava a bocca aperta la banda del paese quando passava per le strade».

Dopo il grande successo perché ha smesso di fare tv: ha avuto paura di rischiare?
«Le spiego. Io da ragazzo ho frequentato la scuola di equitazione di Foggia, e sono stato anche proprietario di cavalli».

E che c’entra?
«Dopo il successo di “Quelli della notte” mi sentii come se fossi caduto da cavallo. Tramortito e spaventato. Mi dissi: Renzo, devi rimontare subito in sella. E così feci “Indietro tutta”, un programma completamente diverso a base di improvvisazioni e satira sulla tv. Un trionfo. Alla fine dell’ultima puntata, mentre cantavo “Io faccio ‘o show”, mi fu chiarissimo che non avrei mai fatto il tris. Ho rivisto quelle immagini e c’è un momento in cui, senza microfono dico “Basta, ci rivediamo tra vent’anni”. Non potevo chiedere di più. Dovevo cambiare».

La gestione del successo di quegli anni fu complicata?
«Un po’ ero abituato, ma non a quei livelli. Comunque, dopo “Quelli della notte” feci un viaggio in America di 50 giorni, che mi aiutò a staccare. Al termine di “Indietro tutta”, invece, rimasi un po’ più stranito. Mi salvarono la musica e l’Orchestra Italiana».

“Signorina, di lei farò una stella”, l’ha mai detto?
«Mai. È la cosa peggiore da fare».

Però ne ha viste e sentite di tutti i colori.
«Certo. Sono il custode di mille segreti. E posso dire che di sicuro una generazione non è stata al gioco: parlo di Milly Carlucci, Mara Venier, Antonella Clerici».

Con le ragazze Coccodè come si comportò?
«Non avevo il tempo di respirare e c’era Mara - all’epoca stavamo insieme - che mi guardava a vista».

Con Lory del Santo, invece, come andò?
«Fu una storia brevissima. Così fu anche per Luciano De Crescenzo».

E con Federico Fellini?
«Gliela presentammo noi, su sua richiesta, dopo che ci eravamo riappacificati. Si era arrabbiato con me perché nel film su di lui, F.F.S.S., non l’avevo fatto con i capelli. Era vanitoso, Federico».

Il fallimento più grande?
«Rai International, da me ribattezzata Rai Italia. Da bambino ho visto spesso i banchi di scuola svuotarsi perché i compagni di classe partivano con i genitori in giro per il mondo. Volevo far vedere agli italiani all’estero la nuova Italia. Non ci sono riuscito».

L’errore della vita?
«Non sposare Mariangela Malato».

Perché non l’ha fatto?
«Ci siamo distratti. Lei è partita per l’America, io no, e ci siamo persi. Abbiamo capito tanti anni dopo di aver sbagliato».

In un’intervista ha detto che mai nessuno ha parlato male di Mariangela Melato: di Arbore, invece?
«Di me, sì. Mai cose sanguinose, però. Almeno di quelle che so io».

Tipo?
«Non saprei. Di sicuro nessuno ha mai detto che sono avaro, come quasi tutti quelli dello spettacolo. Né che sono invidioso, visto che ho lanciato circa 100 personaggi: da Roberto Benigni a Nino Frassica a Roberto D’Agostino». 

Quanti ne ha rovinati?
«Nessuno. Spero».

In giro si dice che lei spesso si sia comportato da cinico burattinaio.
«Burattinaio, sì. Cinico, mai. Io ho sempre suggerito cosa fare con il sorriso. Non ho mai spaventato né usato la gente. Ho alzato la voce pochissime volte».

Con chi?
«Tutti quelli che, lavorando, sottovalutano persone e situazioni. O non mi rispettano». 

La Rai degli ultimi anni è stata poco rispettosa con lei?
«Sì, e anche poco generosa. Pensavo di essere più considerato, se non altro per i successi del passato».

La prima persona che deve ringraziare chi è?
«Ettore Bernabei, storico direttore generale Rai. Fu il primo a capire che potevo funzionare».

In tutti questi anni la sua ossessione, l’idea guida, qual è stata?
«Improvvisare. Sempre. Come nel jazz. Sono un cane a recitare. Lo dissi anche a Bernabei».

Che vuole dire?
«Nel 2009 mi invitò a pranzo per chiedermi: “Vuole recitare nei panni di papa Pio XII in una fiction che sto producendo?”. Non scherzava, ma mi rifiutai. Fu comprensivo». 

Da giovane, invece, che cosa andò a fare da Padre Pio?
«Nel 1963, dopo la laurea, tornai per un anno a Foggia e mi venne la depressione. Non sapevo che cosa fare».

Andò dall’analista?
«Non si usava».

In seguito?
«No. Me la sono fatta passare da solo».

Che cosa le disse Padre Pio?
«Di fare l’avvocato. Con Baudo, invece, finì malissimo».

Come?
«Dopo un anno io e lui tornammo e subito ci chiese: “Siete qui per bisogno o curiosità?”. Pippo fu sincero: “Curiosità”. Ci cacciò urlando».

In chiesa va ancora?
«Ogni tanto».

E a votare?
«Sì, certo. Anche se sono in cerca di una collocazione politica. Diciamo che non sono mai stato comunista, sono stato a lungo repubblicano, e adesso simpatizzo per Emma Bonino».

Quando sarà, fra cent’anni, ha pensato a un epitaffio?
«No. Al massimo si sentirà un po’ di jazz. Quando sarà».
 
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