Referendum tra uso e abuso: i rischi con le nuove regole

Referendum tra uso e abuso: i rischi con le nuove regole
di Mario Ajello
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Martedì 19 Aprile 2016, 00:12 - Ultimo aggiornamento: 08:49
L’uso e l’abuso del referendum, la referendite all’italiana, esce a pezzi dalla consultazione che s’è appena consumata. Il vero messaggio che è stato mandato in queste ore dai cittadini è la richiesta di ridare a questo strumento democratico - che fu reso grande dalla grandezza dei temi trattati, aborto, divorzio, e dalla statura dei personaggi che ne hanno fatto la storia: a cominciare da Marco Pannella - l’eccezionalità che merita. Liberandolo dalla routine sulla quale si è adagiato. Producendo disaffezione e immense difficoltà di quorum, come s’è visto di nuovo in questa occasione, anche a causa della scelta indiscriminata, una volta è la caccia, una volta è l’orario dei negozi, una volta il Triv o No Triv, delle materie su cui chiedere il parere popolare. Come se la democrazia diretta potesse essere applicata non ai nodi più profondi della coscienza ma a qualsiasi problematica anche spicciola. Dopo le fiammate dei primi anni ’90, il referendum sulla preferenza unica nel ’91 e quello sulla legge elettorale del ’93 sempre di Mariotto Segni che poi perse il cosiddetto «biglietto della lotteria», la ripetitività e l’assuefazione hanno preso la scena. Facendo boccheggiare questo istituto, riducendolo immeritatamente a gioco auto-referenziale dei politici e a icona della loro incapacità di risolvere le questioni.
 
LE TAPPE
Ai tempi del referendum sulla scala mobile nel 1985, vinto da Craxi contro un Pci spaccato e ancora sotto choc per la morte di Enrico Berlinguer un anno prima, la destra migliorista pose il problema dell’inopportunità di quella consultazione e proprio Giorgio Napolitano criticò l’abuso di interpellare il popolo su materie che avrebbero meritato un approfondimento e uno scontro serio di tipo politico, se la politica voleva essere all’altezza del proprio ubi consistam. E comunque i referendum - almeno un tempo - erano capaci di evidenziare passaggi storici importanti. Come la crisi del Pci, il più grande partito comunista d’occidente, nei confronti del riformismo socialista in quel 1985. O giusto dieci anni dopo un altro appuntamento, quello contro gli spot in tivvù («Non s’interrompe un’emozione», fu lo slogan della sinistra sconfitta), fece capire tramite il trionfo di Sua Emittenza nel ’95 quanto sarebbe durata la parabola berlusconiana e come il leader forzista fosse in sintonia con gli umori e con i pensieri più profondi e più diffusi nella nostra società. Altro che «Cavaliere di plastica».

Il ripetuto tradimento degli esiti usciti dalle urne ha contribuito pesantemente alla svalutazione di questo istituto. Basti pensare alla consultazione sulla responsabilità civile dei giudici, che arrivò sull’onda dell’indignazione popolare derivata dalla persecuzione contro Enzo Tortora. La legge successiva al referendum andò nella direzione opposta a quella indicata dai cittadini nella scheda.

TRADIMENTI
Così come è accaduto per la soppressione del ministero dell’Agricoltura (ha soltanto cambiato nome) e più scandalosamente, giusta o sbagliata che sia stata l’indicazione degli elettori, per l’eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti. Rispuntato, in barba all’esito referendario, sotto la nuova dicitura di «rimborsi elettorali». E il referendum sulla Rai, sui sindacati, sull’obiezione di coscienza, sulla pesca, sulla procreazione assistita, sulle leggi elettorali e sulle norme economiche (l’articolo 18 per il quale quelli che hanno menato scandalo sulla chiamata all’astensionismo in questa tornata furono in prima fila nel partito del non-voto) e su qualsiasi altro aspetto dello scibile umano, in un delirio di scatoloni con le firme, di sit-in davanti alla Consulta, di polemiche e i litigi, di ansie di visibilità di politologi e di professori che appena sentono l’odore referendario colgono la palla al balzo per sentirsi star?

I referendum così ridotti hanno dimostrato anche stavolta - con il caso Michele Emiliano che ha provato a inventarsi rappresentante unico e trasversale dell’Italia anti-renziana - che queste consultazioni, oltre a prescindere quasi sempre dal merito della questione nell’urna, fungono da palcoscenico della personalità che a turno - altro caso, dopo quello di Segni: Antonio Di Pietro - vuole farsi statista. Quante volte, e anche adesso, s’è parlato di «spallata referendaria»?

STRAMBERIE
Nella crisi di questa sorta di elezioni parallele rientra tutto ciò. Ma anche alcuni paradossi. Il referendum costituzionale di ottobre, essendo confermativo, non ha bisogno di quorum. Il che significa, per dirla provocatoriamente, che potrebbero partecipare alla consultazione soltanto una ventina di persone. E in questo caso, come è stato notato da chi invoca una legge di modifica, accadrebbe che undici di loro rappresentano la maggioranza e impongono il risultato referendario a tutti gli altri. Un altro paradosso è il seguente: nel momento di massima disaffezione per questo istituto, la riforma Boschi, quella costituzionale, introduce i referendum propositivi e, credendo di bilanciare i maggiori poteri che vengono dati all’esecutivo, facilita in generale l’uso del referendum.
Rimane la soglia delle 500mila firme per presentare i quesiti. Ma se i promotori riescono a raccogliere più di 800mila sottoscrizioni, il quorum non è più calcolato sugli aventi diritto, ma sul numero dei votanti dell’ultima tornata elettorale. Basterà la metà di questi ultimi, per rendere valido il referendum. Considerando che le platee dei votanti alle politiche e nelle altre elezioni è sempre più ristretta, calcolare il quorum referendario su di esse significa facilitare oltremodo questo istituto che ormai crea più pasticci che soluzioni.
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